In questo blog propongo ai miei lettori la figura e l'opera di un uomo che ha fatto molto per la società del suo tempo: il cav. Silvio Marsoni, titolare di una grande azienda che assicurava un futuro ai propri dipendenti e ai loro familiari. Il testo che segue si basa su un'intervista che mi ha concesso un ex lavoratore della cartiera "Marsoni" ed è incluso nel volume "Gente di Villorba". Se in Italia potessimo avere altre persone come Marsoni...
«Il cav. Silvio Marsoni
nei ricordi di Rino De Martin[1]»
Non so per quale motivo o circostanza, e potevo avere sette o otto anni, quando mia madre mi portò nella villa del cavalier Silvio Marsoni, a pochi passi dall'omonima cartiera. Ricordo bene, però, che Marsoni stava seduto davanti al tavolo per la prima colazione, e accortosi di me disse ad una cameriera di porgermi un pezzo di cioccolata. Era la prima volta che vedevo della cioccolata, e ancora oggi che ho superato i settant'anni rammento con una certa emozione quel momento, nell'avere tra le mie manine un dolce così ambito e poterlo serenamente gustare.
Mia madre ha lavorato per molti anni come
cameriera nella villa del cav. Marsoni e così anche le mie prime tre sorelle,
mentre io sono stato assunto alla cartiera “Marsoni” nel 1958: ero
appena maggiorenne, e lavoravo come operaio su tre turni. Alle cinque del
mattino iniziava il primo turno, e subito il responsabile redigeva il
rapportino quotidiano indicando la produzione che si stimava di raggiungere per
quella giornata. Il capoturno consegnava così il rapportino all'operaio più
giovane che aveva tra i piedi, al “bocia” tanto per intendersi, e questo
di corsa andava davanti alla villa del cav. Marsoni per affiggerlo in una
bacheca, così che il titolare, con calma, potesse prenderlo quando voleva e
seguire da vicino l'andamento della produzione. Il cav. Marsoni era sempre
presente in fabbrica, e anche all'una o alle due di notte capitava di vederlo
in giro ad ispezionare che ogni operaio eseguisse con diligenza il lavoro
affidato, e che tutto fosse in ordine.
Quando facevo il primo turno capitava spesso che
il mio capo mi incaricasse di sbrigare la consegna del rapportino con la
raccomandazione di tornare subito, così da svolgere il mio lavoro in reparto.
Una mattina, non saranno state nemmeno le 5.30, corsi col rapportino in mano
fin davanti alla villa e con stupore vidi che il cav. Marsoni era lì,
sull'uscio, ad attendermi. Provai un certo imbarazzo trovandomi di fronte al “paron”,
faccia a faccia col titolare della fabbrica più importante di Villorba, l'uomo
che con un cenno del capo poteva assumere o licenziare un padre di famiglia.
Marsoni prendendo il rapportino mi disse di seguirlo in casa. Io rimasi
sorpreso e sentii che mi tremavano le gambe. Mi offrì un bicchiere di latte
caldo e con garbo e tatto iniziò a pormi un po' di domande, chiedendomi del
lavoro che svolgevo, come mi trovavo con i colleghi e se qualcuno mi
maltrattasse. Solo quando fu soddisfatto delle mie risposte e accertatosi col
suo intuito della mia sincerità, mi fece rientrare in reparto; ero, però, così in
ritardo che il mio capo, un po' stizzato, mi chiese subito di spiegargli dove
ero stato. Appena gli accennai che il cav. Marsoni mi aveva chiesto di entrare
in casa, il mio capo cambiò subito atteggiamento e non volle sapere più nulla,
né io volli dare spiegazioni ai colleghi che stavano a pochi passi da me e che
avevano sentito la mia giustificazione.
In seguito mi resi conto che il cav. Marsoni
sapeva praticamente tutto dei propri dipendenti, anche quelli che lavoravano
stagionalmente e con incarichi di scarso rilievo. E non era cosa da poco se si
pensa che nel suo massimo splendore in cartiera si potevano contare
cinquecentocinquanta lavoratori tra operai e impiegati. Di ogni suo dipendente
il cav. Marsoni sapeva tutto quello che si doveva conoscere, soprattutto le
condizioni familiari, e con tutti si comportava come un padre-padrone: a modo
suo bilanciava la generosità con la severità. Fondamentalmente era generoso e
ha aiutato molti di noi a costruire la propria abitazione, e anch'io ho potuto
beneficiare della sua generosità.
Dopo circa due anni che lavoravo in cartiera, in
un'afosa domenica di luglio fui chiamato a dare la mia disponibilità a fare
alcune ore di straordinario in fabbrica per un lavoro di manutenzione ad una
macchina. Ero consapevole che dire di no significava sentirsi dire che a quel
punto potevo stare a casa anche dal lunedì successivo, e così, un po' per
evitare il licenziamento, un po' perché avevo iniziato a costruire la mia casa
e i problemi finanziari non mi mancavano, dissi subito di sì. Nel tardo
pomeriggio di quella domenica estiva, con un compagno di lavoro più anziano ed
esperto di me terminai così il lavoro richiesto, e ricordo che eravamo appena
usciti dalle docce che vedemmo il cav. Marsoni insieme al figlio Alberto e ad
un dirigente, venire verso di noi. Il cav. Marsoni aveva in testa un cappello
con la visiera alzata e camminava giocherellando col bastone. In fabbrica
avevamo imparato che questa gestualità del “paron” indicava la
contentezza del suo animo e che in questi momenti si poteva chiedergli un
aiuto, un sostegno.
“Questa è l'occasione buona per te, fatti
avanti”, mi disse sottovoce il mio compagno che sapeva delle mie difficoltà
con la costruzione della casa. Intanto il cav. Marsoni si era avvicinato e
subito ci chiese se avevamo eseguito bene il lavoro che ci era stato assegnato.
Noi rispondemmo di sì, e lui aggiunse una frase di rito, tanto per sapere come
ce la cavavamo. Io stetti zitto, ma l'altro disse che io avevo bisogno di
qualcosa e che non parlavo per la vergogna.
Allora Marsoni si rivolse diritto verso di me e
volle subito sapere di cosa si trattava. Io riuscì a balbettare solo qualcosa e
lui, comprendendo le mie difficoltà finanziarie, a mo' di rimprovero disse:
“E io cosa ci sto a fare? Domani vai dall'amministratore
e digli che hai parlato con me!”.
Il giorno dopo eseguii quanto mi aveva detto il
cav. Marsoni, ed esposi vagamente le mie necessità all'amministratore, il
quale, a sua volta, mi rispose che mi avrebbe fatto sapere. Tutto sembrò finir
lì.
Trascorse un po' di tempo e io quasi mi ero
ricreduto sulla possibilità di avere un aiuto dal cav. Marsoni, quando, un
giorno, in reparto vengo raggiunto da un impiegato che mi dice di andare
dall'amministratore alla fine del mio orario di lavoro. Pensai a tutto tranne
al sostegno finanziario e così, e non nascondo lo stupore, provai le vertigini
davanti all'amministratore che mi contava sulla sua scrivania settanta carte da
diecimila lire per un totale di settecentomila lire. L'amministratore mi consegnò
quel denaro dicendomi che aveva avuto disposizioni dal cav. Marsoni di darmi,
in seguito, altre cinquecentomila lire. Grazie a quei soldi terminai la mia
casa senza difficoltà, restituendo il denaro che mi veniva prelevato
direttamente in busta paga che, allora, si aggirava tra le trenta e le
trentacinquemila lire quando facevo ore e ore di lavoro straordinario. Il
prelievo dal mio stipendio non si rivelò gravoso e il cav. Marsoni mi aveva
prestato quel denaro senza impormi alcun tasso di interesse, senza obbligarmi a
firmare un documento che attestasse il mio debito e, soprattutto, credendo in
me e nella mia voglia di costruirmi una casa e una mia famiglia anche se avevo
poco più di vent'anni.
Dopo qualche anno fui chiamato ad assolvere il servizio
militare e non solo il mio debito fu congelato, ma una volta al mese in caserma
mi arrivavano gratuitamente cinquemila lire da parte del cav. Marsoni.
Terminato il servizio militare ritornai a
lavorare in cartiera e a saldare il mio debito. Intanto la mia casa era finita
e il cav. Marsoni in persona venne ad ispezionarla: visitò ogni stanza e volle
guardare ogni angolo, e alla fine si complimentò con me, facendomi notare che
c'era solo una cosa che non andava, ovvero non avevo realizzato l'impianto di
riscaldamento. Come ha soccorso me il cav. Marsoni ha aiutato tanti altri suoi
dipendenti, e qualcuno che ha fatto l'impianto di riscaldamento è stato per
questo rimproverato da Marsoni, il quale reputava il riscaldamento in casa come
qualcosa che spettava solo a chi aveva soldi propri.
Oltre ad aiutare con i soldi chi gli chiedeva un
sostegno per edificare la propria abitazione, il cav. Marsoni fece costruire
sessantotto case tra villette per i dirigenti e appartamenti per gli operai;
edifici che in seguito sono stati alienati dall'azienda.
Non è mancato chi ha approfittato della
generosità del cav. Marsoni, come qualcuno che aveva ottenuto i soldi per
costruirsi la casa, ma poi aveva acquistato titoli di Stato per lucrare sugli
interessi. Il cav. Marsoni, però, era sempre presente e se certe cose non le
vedeva direttamente lui, poteva contare su persone che silenziosamente giravano
per la fabbrica e il paese per poi riferirgli ciò che ascoltavano. E così si è
ritrovato licenziato dall'oggi al domani chi ha comprato titoli di Stato con i
soldi del cavaliere, così come è stato lasciato fuori dal portone della
fabbrica chi rubava in azienda.
Una volta, ad esempio, su un autocarro furono
caricati trentasette rotoli di carta, e ogni rotolo pesava circa trecentocinquanta
chili. Sulla bolla di accompagnamento anziché scrivere trentasette fu indicata
la cifra trentacinque, e la cosa non passò inosservata ad una persona di
fiducia del cav. Marsoni. Nel giro di qualche ora il responsabile di quel
tentato furto fu accompagnato al
cancello della fabbrica.
Insomma, come dicevo prima, il cav. Marsoni aveva
un atteggiamento da padre-padrone che stava bene e faceva comodo ad alcuni,
così com'era inviso ad altri. Credo che fondamentalmente Marsoni fosse una
persona generosa, anche se non mancava chi lo giudicasse un personaggio che
faceva opere di bene per ricercare il proprio tornaconto personale. Di certo il
suo modo di fare gli aveva procurato dei nemici. Durante il regime fascista il
cav. Marsoni fu un esponente di primo piano del partito a Villorba, e finita la
guerra diventò, insieme a tanti altri, un democristiano. La sua fabbrica era
uscita illesa dalla guerra, e molti si sono chiesti come mai la cartiera non
avesse subito né i bombardamenti alleati, né le rappresaglie dei nazi-fascisti,
né le incursioni e gli assalti delle bande formate dai partigiani. Di certo, e
soprattutto nell'ultima fase della guerra, attorno alla cartiera si sono
verificati degli strani movimenti.
Quando lavoravo in fabbrica ho sentito più volte,
ad esempio, che, su richiesta di Marsoni, un operaio della cartiera fece da
guida ad un gruppo di soldati tedeschi, i quali non riuscivano ad orientarsi
sul terreno e a ricongiungersi con le truppe germaniche che si stavano
ritirando verso il Brennero. Dopo alcuni giorni quell'operaio fu trovato morto:
aveva delle ferite d'arma da fuoco, e non si è mai riusciti a sapere se ad
ucciderlo furono i tedeschi o i partigiani. Ma perché ucciderlo? In fin dei
conti, da quanto ho potuto apprendere, era un umile dipendente della cartiera e
lavorava per procurare il pane ai figli, tre dei quali furono in seguito
assunti proprio da Marsoni.
Passata la bufera della guerra che si lasciò alle
spalle tanti morti, i partigiani iniziarono a regolare i conti con gli ex
fascisti. Io che ho trascorso tutta la mia carriera lavorativa in cartiera, so
che appena la guerra finì, il cav. Marsoni assunse un ex carabiniere, il quale,
armato di mitra gli faceva da scorta. Altre guardie armate sorvegliavano il
perimetro della fabbrica e ciò, tuttavia, non impedì che almeno in tre
occasione i pagliai prendessero fuoco causando ingenti danni, perché senza
paglia non si poteva fabbricare la carta.
Una volta le faville della paglia bruciata
arrivarono sospinte dal vento fino al borgo “Furo” di Villorba che, in
linea d'aria, dista circa due chilometri e mezzo dalla fabbrica: in
quell'occasione il fuoco divorò un considerevole numero di tonnellate di
materia prima, e il cav. Marsoni fu visto girare impotente e disperato attorno
al rogo. Qualcuno, confidandosi con i propri amici, disse di avere sentito in
quell'occasione il cav. Marsoni arrivare a imprecare e a maledire gli autori
dell'incendio, cosa che a molti sembrò strana trattandosi di un uomo
notoriamente molto religioso.
Riguardo a questi incendi non mancarono versioni
contrastanti: chi parlava di casi di autocombustione, chi addossò la
responsabilità a fumatori distratti e preposti alla sorveglianza, e chi a
soggetti che, nonostante la presenza di guardie armate, erano comunque riusciti
ad introdursi nei piazzali dove era raccolta la paglia e ad appiccare il fuoco.
Oltre a questi incendi che causavano ingenti
danni, in fabbrica non mancava qualche personaggio che, pur assumendo
atteggiamenti particolarmente aggressivi nei confronti di colleghi e superiori,
veniva comunque trattato con un certo riguardo dal cav. Marsoni. Ricordo, in
particolare, un operaio originario di Lovadina che vantandosi di aver ucciso
duecento persone durante la guerra, dichiarava che non gli “faceva freddo”
ammazzare il duecentunesimo. In particolare, una volta capitò che a seguito di
un diverbio con un capoturno, questo operaio arrivò a sferrare un tale pugno
che lasciò l'altro tramortito sul pavimento. Arrivò subito un operaio a
prendere le difese del capo, ma anche quel lavoratore subì la stessa sorte. In
casi del genere il licenziamento doveva subito scattare e invece all'autore di
quelle due aggressioni fu inflitto solo un mese di sospensione dal lavoro;
cosa, questa, che non sortì alcun effetto, perché una volta ricevuta la propria
busta paga, l'aggressore la mostrò a tutti i suoi compagni di lavoro facendo
notare che lo stipendio ricevuto era uguale a quello del mese precedente.
Ancora oggi mi chiedo come mai il cav. Marsoni
potesse tollerare un personaggio del genere. Forse avevano ragione quanti, a
quel tempo, sostenevano che quell'operaio – notoriamente violento – fosse il
depositario di un segreto che tale doveva restare. E poi, anche oggi, mi viene
da sorridere se penso a quell'ex carabiniere che per anni ha protetto Marsoni
e, una volta andato in pensione, capitava che venisse a trovarmi a casa; allora
se trovava una bottiglia di buon vino sul tavolo mi raccontava tanti aneddoti
sulla vita di Marsoni, e man mano che la bottiglia si svuotava venivo a conoscenza
di fatti per me inediti e che, per varie ragioni, preferisco non divulgare.
Al di là di certi aneddoti e dicerie, Villorba e
Visnadello devono comunque molto al cav. Marsoni, il quale spesso ha messo a
disposizione i suoi soldi per aiutare tante persone. Se Marsoni era un padrone
a cui bastava fare un cenno per licenziare un dipendente, che non ammetteva che
un operaio potesse rifiutarsi a fronte di una sua richiesta sul lavoro, egli,
tuttavia, su certe questioni aveva un profondo senso dell'onestà; mi riferisco,
in particolare, alla definizione della busta paga che comprendeva tutte le ore
e i minuti effettivamente lavorati in fabbrica. Con Marsoni, e di questo ne
sono certo, nessun dipendente ha lavorato in nero, ma ha ricevuto sempre e fino
all'ultimo centesimo quanto era stato pattuito, e ciò valeva anche per gli
straordinari e i premi di produzione. Oggi di certo Marsoni inorridirebbe di
fronte agli andazzi che si registrano in certe ditte, le quali hanno dipendenti
non in regola oppure pagano a nero le ore di lavoro straordinario.
Inoltre, come ricorda anche Nazzareno Dal Col[2],
il cav. Marsoni assicurava alcuni benefici ai figli dei propri dipendenti come
il doposcuola, il cinema al sabato e un mese di colonia al mare o in montagna,
e quando a Villorba arrivarono gli sfollati del Polesine[3]
a seguito dell'esondazione del fiume Po, fu alla mensa della cartiera che
trovarono gratuitamente il pasto quotidiano. Bisogna anche ricordare che quando
la chiesa di Villorba fu realizzata nei primi anni Cinquanta, ciò fu possibile
al cav. Marsoni che, in sostanza, offrì buona parte dei soldi necessari alla
costruzione.
Del resto, l'allora parroco Giuseppe Bagaglio
fungeva, in sostanza, da collocatore nella cartiera: quando il cav. Marsoni
aveva bisogno di operai si rivolgeva, in genere, proprio al parroco e, da
quello che si diceva in giro, per questa sua intermediazione don Bagaglio
riceveva in regalo la prima busta paga direttamente dai neo assunti o da
qualche loro familiare. Io non so se questa diceria corrisponda o meno al vero,
certo che quando in seguito ho ricoperto in fabbrica un ruolo importante, mi
sono ritrovato davanti casa diverse madri che volevano consegnarmi, in segno di
riconoscenza, la prima busta paga del figlio che avevo fatto assumere in
cartiera: se io ho sempre rifiutato, sentendomi quasi offeso, questo genere di
regalo, non posso comunque escludere che altri non solo lo accettassero, ma,
anzi, lo imponessero come regola. Oggi, questo modo di fare, fa un po'
sorridere a quelle persone che credono nella meritocrazia, ma fino agli anni
Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, anche Villorba era un paese dove ancora
certe figure, come il parroco e un industriale del calibro di Marsoni, erano
considerate delle istituzioni da rispettare e venerare.
per reperire il volume in formato digitale cliccare su Gente di Villorba
[1]Testimonianza
raccolta da Carlo Silvano presso l'osteria “Da Vettori” a Villorba il 15
novembre 2011.
[2]Carlo
Silvano, “Il
borgo Furo a Villorba nei ricordi di Nazzareno Dal Col”, in “Lungo le
sponde del torrente Giavera”, Studio editoriale Carlo Silvano 2011, pp.
38-39.
[3]Il
14 novembre 1951 si verificò l’alluvione del Polesine: dopo giorni di piogge,
le acque del fiume Po e dei suoi affluenti sommersero tutta la vasta area della
provincia di Rovigo. Le vittime furono un centinaio e gli sfollati circa
180mila. Grazie alla solidarietà degli italiani gli abitanti del Polesine
riuscirono, però, a coltivare la terra già nel 1952, ma non furono pochi quelli
che decisero di emigrare. Infatti, se
nel 1951 la popolazione del Polesine era di quasi 358 mila abitanti, nel 1961
si era ridotta a meno di 278 mila.
Commenti
Posta un commento