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"Una ragazza da amare", romanzo breve di Carlo Silvano

"Una ragazza da amare" è un breve romanzo scritto tra marzo e aprile 2018 e vuole essere una risposta "emotiva" ai diversi casi di conflitto tra docenti e studenti registratisi in varie scuole d'Italia. Quest'opera è indirizzata soprattutto ai ragazzi delle scuole medie (inferiori e superiori) e agli educatori e si propone di aprire una discussione intorno a quella che è oggi è la scuola e a come dovrebbe essere. È un romanzo! I personaggi sono inventati e così pure la trama, ma qual è il confine tra la fantasia e la realtà?

Qui di seguito viene proposto il primo capitolo.



Capitolo I


Da qualche ora ha smesso di piovere. L’aria è pulita. È un’esperienza unica guardare Napoli dall’alto: l’occhio si perde tra le cupole delle chiese ricche di arte e le strade che brulicano di vita, tra le aspre torri del Maschio Angioino e l’austera eleganza della reggia di Capodimonte, tra l’imponenza taciturna del Vesuvio e la placida distesa delle acque del golfo.
Con l’immaginazione tutto è possibile: man mano che si plana, che lentamente si scende verso terra, tutto diventa più chiaro e distinto e ad un certo punto – con la fantasia – si può anche scorgere una giovane donna che da una porta finestra di un appartamento all’ultimo piano di un anonimo palazzo del cuore di Napoli esce per andare sul proprio balcone ad innaffiare alcune piantine di basilico e rosmarino. Poi, come per abitudine, la donna si sporge lievemente dalla ringhiera in ferro battuto del balcone: sotto di lei c’è una stradina a quell’ora poco trafficata e la sua attenzione si concentra su un uomo in giacca e cravatta che arriva da un vicolo laterale e che a passo veloce e deciso percorre una breve distanza fino a raggiungere il portone di un antico palazzo che sorge proprio davanti a quello della giovane casalinga.
La donna torna ad occuparsi delle sue piantine, mentre l’uomo, perso nei propri pensieri, estrae da una tasca della giacca un mazzo di chiavi ed aperta la serratura del portone inizia a salire i gradini, realizzati con roccia di piperno, di una secolare ed arcaica scala. Al primo piano, sul pianerottolo una studentessa sta chiamando sua sorella Giulia invitandola ad affrettarsi per non fare tardi a scuola. La ragazza, con accento veronese, si rivolge all’uomo che ha poco più di cinquant’anni dicendo:
«Buongiorno dottor Varriale».
«Buongiorno, buongiorno Adelaide».
«Sto andando a scuola. Se Martina vuole venire con me la posso aspettare. Comunque adesso la chiamo per citofono».
Il dottor Varriale fa cenno di sì con la testa: ha fatto un lungo percorso a piedi e a passo veloce ed è stanco dopo aver lavorato tutta la notte in ospedale.
«Grazie Adelaide… se Martina viene con te sono più tranquillo».
Adelaide annuisce e torna a chiamare la sorella mentre il dottor Varriale riprende a salire i gradini della scala. Giunto al pianerottolo successivo si ferma per un attimo ad osservare il nome inciso su una targhetta affissa sulla porta di un appartamento: “prof.ssa Giovanna De Santis”. Poi riprende a salire per arrivare a casa sua. Sempre con una delle chiavi che ha in mano apre e annuncia il proprio arrivo alla moglie:
«Rita, Rita sono io. Sono tornato. Oggi Martina se la sente di andare a scuola? Se ci va ed è pronta può andare con la sua amica che è già vicino al portone del palazzo».
«Ciao Roberto – risponde la moglie – adesso chiedo a Martina cosa fa, che è in bagno da mezzora».
Avvicinatasi alla porta del bagno la donna bussa lievemente e in quel momento si sente anche lo squillo del citofono.
«Martina – dice la mamma – te la senti di andare a scuola? Adelaide è giù che ti aspetta».
In bagno Martina è davanti al lavandino, si sta lavando la faccia, alza la testa e la sua immagine compare sullo specchio che ha di fronte; un cospicuo fiotto di sangue scorre dalle sue narici e mentre si pulisce lavandosi con dell’acqua, risponde:
«Certo che vado a scuola. Perché non dovrei? Ad Adelaide però dille di avviarsi, che la raggiungo al liceo».
La madre esegue e quando Martina esce dal bagno è visibilmente stanca: prende comunque lo zaino con i libri e i quaderni di scuola e una merenda lasciata sul tavolo della cucina. A pochi passi da lei il televisore è acceso e sintonizzato su un telegiornale locale che riporta la notizia delle indagini avviate dai carabinieri per dare il volto agli autori di un reato che ha suscitato una particolare emozione in città: alcuni ignoti avevano nei giorni precedenti appeso un fiocco azzurro sul portone di un noto convento femminile napoletano e ciò aveva causato l’indignazione di non pochi politici che accusavano le avverse fazioni. Nei confronti di questi ignoti le suore del convento avevano presentato una querela.
Con lo zaino sulle spalle Martina saluta i propri genitori ed uscita di casa scende lentamente i gradini della scala; anche lei con la coda dell’occhio osserva la targhetta apposta sulla porta dell’appartamento del secondo piano e mentalmente legge: prof.ssa Giovanna De Santis. Dopo alcuni minuti è da sola alla fermata dei mezzi pubblici.
L’autobus utilizzato da Martina arriva a poche centinaia di metri dal liceo: le porte dell’automezzo si aprono e un fiume di studenti scende sul marciapiede della fermata. Per alcuni secondi dall’autobus non scende più nessuno, ma poi si vede Martina. Fa molta attenzione a non cadere ed una volta scesa dall’autobus si gira verso l’autista: con un cenno della mano lo ringrazia per la sua pazienza e poi si avvia verso la scuola facendo così l’ultimo tratto di strada a piedi. Percorre, però, poche decine di metri, che trova un suo compagno di classe seduto a terra.
«Cosa ti è successo, Pasquale?», chiede la ragazza.
«Per la fretta sono caduto e col ginocchio ho battuto sullo spigolo del marciapiedi, ma tu vai avanti. Adesso ti raggiungo».
«Vedo del sangue. Sei sicuro che non hai bisogno di aiuto?».
«Si, non ti preoccupare. Vai!».
 A Martina non va di lasciare il suo amico da solo, ma l’altro insiste e così lei riprende il cammino e arriva al Liceo classico “Caterina Segurana”: il portone della scuola è già chiuso ma, come se sapesse del suo arrivo, il bidello lo apre quando Martina è a pochi metri di distanza. Mentre la studentessa varca il portone arriva il suo compagno correndo e zoppicando e insieme entrano nella scuola. Pasquale chiede a Martina se vuole dargli lo zaino così da non dover fare le scale con quel peso sulle spalle. Lei ringrazia e risponde che ce la fa a portare quel peso. Così l’altro, che non è per nulla magro, si avvia di corsa verso le scale passando sotto l’effige che ricorda l’eroina Caterina Segurana e ciò che fece per difendere la città di Nizza nell’agosto del 1543 da un esercito composto da turchi e francesi.
Intanto nell’aula della terza C la professoressa Giovanna De Santis, docente di greco, latino, storia e italiano, sta esponendo il proprio pensiero su quanto è avvenuto al convento delle suore per sostenere che, indipendentemente dal fatto che sia o meno una bravata di un gruppetto di ragazzi o un deliberato atto di persone mosse da fini ideologici, ciò costituisce un grave episodio, perché non si può impunemente sbeffeggiare la sensibilità religiosa delle persone. Gli allievi ascoltano in silenzio, ognuno seduto composto al proprio banco, ma sul volto di alcuni non manca un’espressione di disapprovazione.
Ad un certo punto uno di loro alza la mano. La docente si ferma. Lo guarda diritto negli occhi e sul suo volto appare un’espressione come se volesse dire: anche in quest’occasione mi devi contestare? A denti stretti la docente, poco più che quarantenne e con dei lunghi capelli castani che le cadono sulle spalle, gli dice che può alzarsi e dire la sua, ma che tenga almeno presente che lei ha qualche anno più di lui e certe cose le sostiene proprio per l’esperienza di vita che ha maturato piuttosto che per la sua formazione culturale. Lo studente, un po’ magro e con i capelli ricci e castani, abbozza sul viso un’espressione sarcastica e poi, con l’approvazione di alcuni compagni di classe, tra cui Adelaide che siede nella fila di banchi centrali proprio accanto a lui, inizia a sostenere che trova ridicolo che di quel fatto avvenuto fuori al portone del convento si parli in classe dandovi una certa importanza. Lui, come tutti gli altri, vive in una città che ha rilevanti problemi legati alla criminalità, alla disoccupazione, al traffico e consumo di droghe, alle difficoltà di poter studiare in ambienti idonei alla formazione delle giovani generazioni. Lui, come altri giovani, non ritiene di doversi soffermare su questo fatto. Mentre parla, la professoressa muove la testa come per dire che anche lui ha delle buone ragioni, ma certe questioni di principio vanno affrontate e gestite con autorevolezza e determinazione, perché se vengono a mancare dei valori e dei principi viene a scemare anche la lotta alla criminalità. Mentre lo studente parla, Adelaide fa cenni di approvazione.
Un altro studente, seduto nel banco dietro ad Adelaide, pure alza la mano per poter intervenire e, ottenuta la parola, anche lui sostiene la necessità di spostare il dibattito sulle politiche giovanili anziché soffermarsi su quello strano caso di vilipendio della religione cattolica. Mentre parla, alla porta c’è qualcuno che bussa. La docente invita ad entrare e in aula si presenta Pasquale Sannino: il ragazzo cerca di giustificare il proprio ritardo parlando del dolore che ancora prova al ginocchio e descrivendo la caduta. La docente, però, gli risponde che quello non è un buon motivo per fare ritardo e che se fosse successo ancora sarebbe rimasto fuori dall’aula per tutta l’ora della lezione. Il ragazzo a capo chino e con una smorfia di sofferenza va a sedersi al suo posto che è nel banco davanti al primo ragazzo che ha preso la parola.
Intanto l’altro studente, che ha un fisico atletico, riprende a parlare dei problemi dei giovani che vivono in città e che soffrono soprattutto per l’assenza di spazi, come strutture sportive e parchi pubblici.
L’intervento del secondo studente pure trova l’approvazione di Adelaide e del primo studente. Bussano di nuovo alla porta: la professoressa invita ad entrare. La porta si apre e sull’uscio appare Martina che si scusa per l’ennesimo ritardo. La docente, però, la interrompe esprimendo tutta la propria gioia nel rivederla e andandole incontro le toglie lo zaino dalle spalle per poi accompagnarla al suo posto, accanto all’amica che abita nel suo stesso palazzo. Adelaide e Martina sono molto diverse: la prima è più alta e robusta, la seconda minuta e timida; ogni pomeriggio studiano insieme, a volte anche con altri compagni di classe, e sanno come aiutarsi a vicenda.
Anche un terzo studente chiede di poter intervenire per leggere e commentare un brano di un poeta latino che invita ad andare al nocciolo di ogni problema evitando, inutili fronzoli, ma appena inizia a leggere il testo che ha scelto per l’ennesima volta qualcuno bussa alla porta dell’aula. La docente, che a questo punto è visibilmente irritata, chiedendosi chi potesse essere l’alunno ritardatario di nuovo invita ad entrare.
La porta si apre e sull’uscio appare il preside del Liceo, che viene accolto con cordialità dalla docente, la quale, però, presto si accorge che col preside ci sono anche due carabinieri ed esclama parole di stupore. Intanto gli alunni si alzano in piedi e quando alcuni di loro, come Adelaide e i tre studenti che sono intervenuti nella discussione aperta dalla professoressa, si accorgono della presenza dei militi, si lanciano occhiate di sorpresa e sospetto.
Il preside invita i ragazzi a sedersi e poi informa la docente che i carabinieri sono due ufficiali venuti a scuola per dire alcune cose agli studenti. La docente ancora stupita e incredula fa un cenno di assenso e si scosta un po’.
L’ufficiale dei carabinieri più alto in grado prende subito la parola dicendo che spesso lui va nelle scuole per incontrare gli studenti e metterli in guardia su certi drammi, come la diffusione delle droghe o il ritrovarsi in circoli legati alla malavita organizzata. Drammi che trovano terreno fertile nella disoccupazione come pure nell’assenza di sani spazi educativi e formativi per i giovani. Lui e il suo collega, però, questa mattina non sono venuti in classe per parlare di camorra o di stupefacenti, ma di un altro tipo di reato, che può costare anche l’arresto. Gli studenti ascoltano in silenzio, ma alcuni di loro mostrano qualche segno di nervosismo.
Si rischia l’arresto, afferma l’ufficiale dei carabinieri, non solo quando si spaccia droga o si impone la tangente ai commercianti, ma anche quando si commette il reato di vilipendio della religione di Stato, art. 402 del codice penale. A queste ultime parole la docente sgrana gli occhi e il nervosismo aumenta tra alcuni ragazzi.
Per qualche secondo l’ufficiale dei carabinieri tace guardando ad uno ad uno gli studenti che ha di fronte. Poi, fissando negli occhi il primo ragazzo che ha contestato la docente e puntando verso di lui il dito indice, dice:
«Tu!».
Lo studente si sente imbarazzato e non sapendo cosa fare guarda verso il preside, il quale con la mano gli fa cenno di alzarsi. Mentre il ragazzo si alza in piedi la docente riesce a fatica a strozzare un grido in gola e si porta la mano al petto.
L’ufficiale continuando a guardare negli occhi il ragazzo gli chiede:
«Come ti chiami?».
Lo studente esita e dopo qualche secondo e con un filo di voce afferma:
«Fulvio Giustino».
«Fulvio Giustino!», esclama l’ufficiale con un timbro di voce ben marcato e rivolgendosi al suo collega, il quale si affretta a prendere un foglio da una cartellina che aveva sottobraccio.
Mentre il carabiniere passa all’ufficiale uno dei fogli che ha nella cartellina, lo studente, sempre a voce bassa, precisa:
«Fulvio è il nome, Giustino è il cognome».
L’ufficiale, che ora ha in mano il foglio passatogli dal suo collega, guarda diritto il ragazzo di nuovo negli occhi e senza esitazione afferma:
«Lo so!».
In quello stesso momento si sente una matita spezzarsi tra le dita di Adelaide che fatica a nascondere il proprio nervosismo. In aula tutti sono tesi e la docente guarda il suo allievo con un misto di rabbia e di stupore.
L’ufficiale, leggendo il foglio, afferma:
«Fulvio Giustino, tu sei nato nel comune di Cercola il 20 marzo del 1966 e risiedi a Napoli in via Salvator Rosa. È così?».
Il ragazzo, imbarazzato e ancora con un filo di voce, risponde di sì facendo un accenno anche col capo quasi volesse ammettere la sua colpa.
A quel punto l’ufficiale gli fa cenno di sedersi e mentre il ragazzo si siede sotto lo sguardo incredulo della docente, l’ufficiale riprende a parlare del reato di vilipendio alla religione di Stato raccontando che proprio in quei giorni alcuni minorenni hanno affisso un fiocco azzurro sul portone di un convento della città.
Tutti continuano ad ascoltare in silenzio l’ufficiale che ad un certo punto si interrompe per rivolgersi all’allievo che aveva polemizzato con la docente parlando dell’inadeguatezza delle strutture sportive e ricreative. Dopo averlo fissato, l’ufficiale si rivolge al ragazzo dicendo:
«Tu!».
L’allievo si alza dalla sedia mestamente sotto lo sguardo incredulo della docente.
Anche a questo ragazzo l’ufficiale chiede:
«Come ti chiami?».
«Giulio D’Ambrosio».
«Giulio D’Ambrosio!», esclama a voce alta l’ufficiale rivolto al suo collega, il quale si affretta a passargli un altro foglio.
«Giulio D’Ambrosio, tu sei nato nel comune di Pollena Trocchia il 2 ottobre del 1966. È così?».
«», risponde a testa bassa il ragazzo, mentre Adelaide serra nervosamente entrambe le mani a pugno.
Anche la docente accusa un colpo, come un pugno al volto, e con la voce rotta dall’emozione dice:
«Mi scusi signor preside, ma non posso stare ancora qui. Ho bisogno di uscire dall’aula».
Senza attendere l’eventuale risposta del preside, la docente si avvicina a Martina e assumendo un atteggiamento materno e protettivo le dice:
«Vieni con me».
L’ufficiale dei carabinieri resta muto e sorpreso dal comportamento della docente, ma appena quest’ultima esce dall’aula insieme a Martina, il preside prendendolo un po’ in disparte, gli spiega che la ragazza che è appena uscita ha dei seri problemi di salute dovuti a delle disfunzioni cardiache e che la docente è sempre stata molto protettiva nei suoi confronti. A sentire queste cose, l’ufficiale fa un cenno di assenso e dice:
«Ha fatto bene… la professoressa ha fatto bene».
Rivolgendosi poi alla classe l’ufficiale riprende a parlare sottolineando che una querela contro ignoti era stata presentata dalla superiora delle suore del convento oltraggiato e che i carabinieri si erano subito attivati per scoprire gli autori del fattaccio. Tutti gli studenti erano imbarazzati e a testa bassa; fatta una breve pausa, l’ufficiale rivolgendosi al ragazzo che aveva letto un breve passo di un poeta latino gli chiede:
«Come ti chiami?».
Il ragazzo stava seduto accanto a Fulvio e, alzandosi, affermò:
«Stefano Tranchese».
Per pochi secondi l’ufficiale rimase zitto, osservando il ragazzo e prendendo un foglio che il suo collega gli passava; dopodiché disse:
«Stefano Tranchese, anche tu sei nato nel comune di Pollena Trocchia il 4 ottobre del 1966».
Il ragazzo si limitò ad annuire.
L’ufficiale restituì i fogli con i nomi dei tre ragazzi al collega e poi rivolgendosi a tutta la classe disse:
«A volte può capitare di essere fortunati, come è successo nel vostro caso. Ieri sera la superiora delle suore quando ha saputo che a compiere quell’atto sono stati tre minorenni ha voluto ritirare la querela, ma sappiate che nella vita non si può avere sempre questa fortuna e che prima o poi gli errori si pagano. Mi auguro di non dover più ritornare in questa classe».
Ci fu una breve pausa. Nessuno parlò e allora l’ufficiale aggiunse:
«Buona giornata».
Si avviò poi verso la porta seguito dal suo collega e dal preside mentre tutti i ragazzi si alzavano in piedi per rispondere al saluto. Sull’uscio della porta il preside fece cenno ai ragazzi di sedersi e uscendo chiuse la porta. Ci fu uno straziante silenzio mentre il volto di Adelaide veniva solcato da una lacrima.
Qualche minuto dopo che il preside era uscito, la maniglia della porta si abbassò lentamente sotto lo sguardo di Fulvio e Giulio che subito calarono i propri occhi sul banco. La porta si aprì e sull’uscio comparve Martina seguita dalla docente. La professoressa teneva le proprie mani appoggiate sulle spalle della ragazza e con cautela la guidava verso il suo posto accanto ad Adelaide. Martina si sedette e la professoressa le aggiustò il colletto della camicia e mentre faceva questo con la voce rotta da un misto di rabbia ed emozione disse:
«Giustino, D’Ambrosio e Tranchese: il preside vi sta aspettando nel suo studio».
Fulvio fece un amaro cenno a Stefano e si alzò. Si alzò dal suo posto anche Adelaide e a denti stretti disse:
«Professoressa, vorrei andare anch’io dal preside».
La docente sgranò gli occhi dicendo:
«Silvestri Adelaide, cosa centri tu con questa storia?».
«Non ha nulla a che fare con questa storia. Silvestri non c’entra nulla». Disse Fulvio mentre con una mano appoggiata sulla spalla della ragazza la spingeva a sedersi. La docente represse un moto d’ira e non aggiunse altro mentre i tre studenti uscivano dall’aula.

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