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Il carcere di Treviso raccontato da don Pietro Zardo

TREVISO - Ha conosciuto il mondo carcerario nel 1996. Prima di allora non era mai entrato in un penitenziario, e proprio ripensando a quel “primo” giorno trascorso a percorrere corridoi e locali dove dappertutto ci sono cancelli, porte blindate e sbarre, don Pietro Zardo ricorda che provò un'emozione molto strana, quasi inquietante.
Da circa quattordici anni don Pietro è cappellano della Casa circondariale di Treviso, un luogo per molti aspetti disumano dove vige la regola della sopravvivenza. “Ciascuno vive per sé – riferisce don Pietro – e non esiste quel sistema relazionale che ti permette uno scambio di sentimenti umani, come quelli legati all'accoglienza, alla fiducia, alla solidarietà. Non ci sono aree comuni e anche i pasti vengono consumati in cella. Col tempo non mi sono più posto certe domande e sono cresciuto sul campo, perché quando ho accettato di fare il cappellano a Santa Bona non avevo una specifica formazione. Subito, però, capii che non bisogna commettere certi sbagli, come infrangere quella infinità di regole e norme che regolano l'accesso e la frequenza alla struttura penitenziaria”.
Invitato da parroci e amministratori locali don Pietro Zardo in questi ultimi mesi ha partecipato come relatore a numerosi incontri sulla realtà della detenzione, dove ha avuto l'occasione di parlare anche del suo libro intitolato “Condannati a vivere. La quotidianità dei detenuti del carcere di Treviso raccontata dal suo cappellano” (http//ilcarcereditreviso.blogspot.com/). Recentemente ha lasciato l'incarico di parroco di una piccola comunità alle porte di Treviso proprio per dedicarsi quasi esclusivamente alla cura pastorale dei carcerati. Ora vive nella canonica di Fanzolo.


[don Pietro Zardo e lo scrittore Arrigo Petacco]


Don Pietro, il primo impatto col carcere è stato quindi molto forte, anche per come sono iniziati i suoi rapporti con i detenuti?
Sì, perché sono persone che si rivolgono a me come a qualcuno che può dare loro qualcosa. Intanto i detenuti percepiscono il cappellano come una figura che non ha fini come quelli disciplinari o, comunque, istituzionali; sentono che il prete è un uomo verso cui poter andare senza timori e a cui raccontare problemi personali e familiari.

Il problema più difficile?
Quando ho incominciato a incontrare i detenuti, ho conosciuto persone che mi ponevano tante difficoltà e io non mi sentivo all'altezza di affrontare e gestire da interlocutore problematiche scottanti. Non si può mettere piede in un carcere in maniera pietistica, ed è fondamentale essere il più vicino possibile alla realtà dei reclusi. Mi ritrovo, così, ogni mattina ad avere incontri personali con i detenuti: senza barriere e senza filtri ascolto storie inimmaginabili. Il carcere mi ha portato a scoprire esperienze di vita con uno spessore e una problematicità difficili da capire per chi, oltre il muro di cinta, svolge la propria vita tra famiglia, lavoro e tempo libero.

Anche il sovraffollamento rappresenta un grosso problema...
Sì, anche recentemente siamo arrivati ad una situazione alloggiativa inimmaginabile con una mobilità interna molto forte.


[l'avv. Maria Bortoletto e don Pietro Zardo]

In che senso?
Tante persone entrano per poi essere trasferite altrove, in altri penitenziari. Tutto ciò crea diversi problemi soprattutto quando seguiamo il singolo percorso riabilitativo di un recluso.

Qual è la media annua delle presenze in carcere?
Attualmente abbiamo una media di circa trecento persone. Se li confrontiamo con i dati del mese di gennaio 2007, quando i reclusi erano 159, possiamo dire che le presenze sono raddoppiate.

Ma il carcere di Treviso quanti detenuti può ospitare?
E' una struttura che, in base alle autorizzazioni rilasciate dal competente Ministero, può ospitare centoventotto reclusi. E' chiaro che man mano che i detenuti aumentano, lievitano anche i problemi dovuti soprattutto agli spazi, sia per quanto riguarda le celle che le aree comuni. Soprattutto nella stagione calda gli ambienti dei reclusi diventano insopportabili per il mancato circolo di aria fresca. A causa del caldo soffocante, dell'aria impossibile da respirare per i cattivi odori, e degli ambienti chiusi e ristretti, ci sono giorni che ai detenuti sembra di vivere in un luogo infernale. Insomma, vivere nelle condizioni in cui sono costretti i detenuti, significa aggiungere una pena alla condanna inflitta dal giudice.

Oltre a questi problemi di natura strutturale, ci sono altre problematiche?
A causa dei continui tagli alle spese per i detenuti capita che vengano a mancare carta igienica, detersivi e disinfettanti. Non sono previsti fondi per l'acquisto del vestiario da fornire ai carcerati e molti stranieri che non hanno né la possibilità economica, né possono contare sul sostegno di familiari o amici, ne sono completamente sprovvisti.


[don Pietro Zardo e don Domenico Pellizzer, parroco a Guarda di Montebelluna]

In questi casi interviene qualcuno?
Personalmente mi capita spesso di dover acquistare a mie spese carta igienica e disinfettanti. Compero nuovi anche gli indumenti intimi, mentre per altri capi di abbigliamento ricorro all'aiuto di privati e associazioni.

A causa della scarsa igiene si registrano epidemie e casi di malattie?
Capita anche che qualcuno si ammali, ad esempio di scabbia, e che contagi i compagni di cella.

In carcere arrivano anche i tossicodipendenti...
Sì e anche se non sono in tanti tuttavia la loro è una presenza costante. In carcere i tossici interrompono l'uso della droga e grazie al personale sanitario vengono seguiti col metadone. Hanno anche la possibilità di parlare con gli psicologi e sono comunque seguiti e curati dai Sert di competenza. Ho notato che chi finisce in una cella in compagnia di quei tossici che sono anche piccoli spacciatori, è sottoposto a un duro martellamento psicologico: questi ragazzi che spacciano non fanno altro, nel corso della loro lunga giornata, a parlare di come procurarsi la droga, come tagliarla, dove venderla e come usarla. E' come un disco che una volta terminata la musica, riprende dall'inizio e sembra quasi che non ci sia verso per farlo smettere.

Lei conosce le tensioni e i problemi della Casa circondariale: è cambiato qualcosa in questi ultimi anni?
Dal mio osservatorio ho modo di raccogliere le confidenze e i pentimenti di chi è finito in cella per scelta o per costrizione, e ho dovuto constatare che in questi ultimi tempi il carcere è cambiato e le tensioni all’interno sono cresciute. La trasformazione vera c’è stata con l’aumento della malavita straniera, delle etnie diverse che devono convivere qui dentro.

In passato però ci sono stati anche degli scontri riconducibili alla sfera religiosa.
Sì è vero che circa dieci anni fa c'erano dei fondamentalisti che cercavano lo scontro e la contrapposizione e hanno creato dei problemi. Oggi è diverso. Anche i musulmani chiedono, come gli altri, un rapporto serio con l'uomo di fede. In questi anni ho imparato che il carcere porta a scontrarsi e a riflettere con se stessi e tutti, indistintamente hanno un bisogno inespresso: sentirsi rivalutati, sapere che il loro Dna è uguale a quello degli altri uomini.

Se per un dizionario dovesse definire il termine “carcere”, quali parole ed espressioni userebbe?
Per come lo vedo, lo definirei un contenitore chiuso. Le persone portate in carcere - certamente perché sono inique - vengono messe lì senza alcuna prospettiva, ed è questo l'aspetto del carcere più duro e tremendo da affrontare. (a cura di Carlo Silvano)

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