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Il boiaro, prefazione di Massimo Valli

Qui di seguito propongo ai lettori del mio blog la prefazione al mio romanzo "Il boiaro". L'idea di scrivere questo romanzo mi è venuta nel mese di ottobre del 1986, durante un breve soggiorno a Lostallo, in val Mesolcina (Grigioni - Svizzera), ospite di un'amica. Ed è a questa persona che ho dedicato questo libro - scritto a Pollena tra il 1987 e il 1988 - e pubblicato per la prima volta nel 1989. Oggi, riproponendo queste pagine ai lettori dopo averle riviste e corrette, ripenso e mi sento profondamente legato a tutti i miei familiari.
Questa nuova edizione - pubblicata con i tipi delle Edizioni del noce - ha il patrocinio morale del Circolo di lettura "Anna Gnesa", affiliato all'Associazione culturale "Nizza italiana". La prefazione è a firma di Massimo Valli.

      Leggere questo breve romanzo è stato come immergersi in un sogno, in un tempo diverso, non solo in senso cronologico, ma anche nel senso delle regole che definiscono comunemente il tempo. Pur avendo ricevuto in anticipo brevi, ma precise indicazioni dall’Autore rispetto al fatto che non si tratta di un romanzo storico e che come tale non è mai stato concepito, una certa “deformazione professionale” mi induceva comunque all’approccio di sempre, nella lettura di romanzi riguardanti il periodo in questione, cioè alla ricerca di punti di riferimento storici, cronologici, almeno di carattere sociale, che mi dicessero qualcosa di più di quegli avvenimenti e delle loro ragioni. All’inizio è stato quasi un sentimento automatico, dovuto, per rispetto dell’Autore.
Praticamente da subito ho capito che non era l’approccio giusto. E a poco a poco ho pure compreso che la ricchezza e il valore della vicenda di Ivan, nel suo intrecciare e intercettare altre vicende e storie, stavano altrove rispetto a dove pensavo di cercarli.

Ma procederò con più ordine.

La vicenda vuole ambientarsi nel periodo dello scoppio della rivoluzione russa dell’ottobre 1917 e riferisce la risonanza che questi avvenimenti hanno nell’animo del boiaro Ivan Vasil’evič Nikonov. Questo potrebbe essere il succo del romanzo dal punto di vista della narrazione. Ogni capitolo rappresenta un po’ un quadro a sé stante, certamente con riferimenti a quanto viene prima e quanto succederà dopo, ma si profila come storia chiusa in sé, e fatto assolutamente peculiare, addirittura caratterizzato da un colore specifico. Una storia fatta più del succedersi di sentimenti, che di avvenimenti. Il protagonista, il boiaro Ivan Vasil’evič, è un uomo appartenente a quella classe che, pur con il suo materialmente piccolo - ma sostanzialmente sconfinato - potere si ritrova più esposta in questo contesto storico al confronto diretto sul piano umano con i propri sottoposti. L’alta nobiltà non ha quasi nemmeno il tempo di misurarsi con i propri antagonisti mentre viene ideologi-camente ed esecutivamente spazzata via, in modo automatico e pregiudiziale, violento e sanguinoso; affida totalmente la propria incolumità a un esercito di cui dispone direttamente per la completa tutela dei propri interessi e non scende nemmeno in campo a confrontarsi con l’avversario. Il boiaro Ivan si ritrova invece improvvisamente addosso una storia che lo sradica dalla vita che sta conducendo: a questa storia egli si ribella invocando un diritto naturale che ignobili e indegne masse umane stanno violando, e lo sconvolgimento interiore lo porta persino ad interrogarsi su un Dio che sembra stare a guardare mentre si viola una legge che Lui stesso risulta aver stabilito. In realtà i boiari, al tempo della rivoluzione russa, sono identificati come una sorta di casta intoccabile e privilegiata di burocrati, svuotata del ruolo sociale originario ormai da poco meno di cent’anni (dall’abolizione della servitù della gleba, promulgata dallo zar Alessandro II nel 1861). Ma il boiaro sognato dall’Autore, piccolo proprietario terriero ai margini della grande storia e delle corti imperiali, ha dalla sua, a differenza dell’alta nobiltà, l’opportunità di incontrare l’av-versario tanto ripugnato e persino di sporcarsi le mani con lui e come lui: non per filantropia, ma per sopravvivenza; non per condividerne sorti e sentimenti, ma per guadagnarsi del pane. In modo ancor più spregevole, perché, mentre sperimenta la stessa sorte dei miseri, lo fa avendo a disposizione i simboli e gli oggetti del potere, che, pur svenduti, diventano strumento ancora una volta di posizione privilegiata, anche nell’indigenza e nel comune pericolo.

Quest’ultima osservazione introduce di più il lettore che intende iniziare la lettura del romanzo al percorso di pensiero che l’Autore ha voluto intraprendere nella rappresentazione di questa vicenda.

Prima di parlarne, diventa opportuno approfondire uno degli strumenti stilistici che l’Autore sembra utilizzare per differenziare e potenziare il valore di ciascun capitolo: il colore. Come avevo anticipato, si fa riferimento a un tratto evidente dello stile narrativo e, con maggiore o minore contributo della volontà di chi scrive, il colore in ciascuna sezione del romanzo diventa come lo sfondo su cui si scrivono i sentimenti e nel quale il cuore e la mente dei personaggi si agitano, sempre con la mediazione di Ivan, del suo cuore, della sua mente. Vediamo di analizzare il quadro.

Nel primo capitolo il colore prevalente è il "bianco", colore della neve e del gelo. In questo capitolo i sentimenti restano chiusi, quasi soffocati nel cuore di Ivan. Anche i rumori risultano attutiti dall’ovatta della neve, dalla prepotenza del gelo. Il bianco è colore del morente impero ed è facilmente ricopribile dal minimo diverso colore che lo invada. Così sono i sentimenti di Ivan, turbato da ogni rumore, da ogni sospetto, da ogni pen-siero diverso da quelli che prima abitavano il suo cuore.

Il "nero" del secondo capitolo è il colore di ciò che finisce, di ciò che era una volta e che ormai con prepotente evidenza è volto al termine. È il colore degli occhi che hanno la sensazione di non vedere più un futuro sereno, è il colore di chi non riesce nemmeno più a veder Dio, la massima speranza, nel cuore e nella storia; il colore di chi incontra la morte, la prefigura in modo chiaro e distinto, come non mai; non solo la morte del corpo, ma anche, e più tragicamente, quella delle certezze, della pace, dell’anima.

Il terzo capitolo è il trionfo del "rosso". Il rosso del sangue della macellazione, del fuoco notturno, della terra dell’aia, degli occhi sanguigni dei cavalli da corsa, dei volti affaticati, sudati e surriscaldati dalla vodka, del sole che tramonta durante le passeggiate serali di Ivan alla ricerca di refrigerio e di quiete. Il rosso è anche il colore della rivoluzione, che qui, quasi per singolare nemesi, rappresenta il mondo di chi rifiuta la rivoluzione, non le appartiene, non ne è né vuole esserne parte. Sembra un preludio a quello che sarà il punto di arrivo del percorso spirituale del protagonista.

Il capitolo quarto si presenta, invece come una tavolozza multicolore, fin dalle prime righe. L’insieme dei colori di vestiti, sale, suppellettili, quadri, introduce a quel turbinio delle vanità, a quella vitalità spensierata che è la vita quotidiana dei nobili. Non si tratta certo del salotto dell’Anna Pavlovna di "Guerra e pace", ma i personaggi che lo popolano, inferiori per caratura, ma non per ambizione e frivolezza, lo colorano di variopinti abiti, sogni, progetti, discorsi, nel ridondante e ba-rocco fiorire di intarsi e bomboniere. Questo traboccare invadente di colori è da Ivan rifiutato e scansato.

Il quinto capitolo, quello della congiura, si tinge del "giallo pallido" della lampada notturna, che traballando illumina appena i volti dei convenuti, senza lasciare mai il tempo di coglierne un tratto preciso e distinto: così come il loro cuore è allo stesso tempo deciso e combattuto, forte e timoroso.

Il "marrone" del capitolo sesto colora la terra polverosa e stopposa dei campi, i rami della quercia e dei cespugli. È il marrone dei cuori legnosi e induriti dei congiurati, che, proprio come il legno, in un istante si incendiano e inceneriscono, di-struggendo se stessi al fuoco dei sentimenti improvvisi di rabbia, dolore, disperazione e panico.

Finalmente la piccola e fuggitiva chiazza "verde" del capitolo settimo: la troviamo nei cespugli e nella rabbia senza senso di Ivan.

L’ottavo capitolo abbandona per un istante il pregio stilistico del colore e si concentra, tramite l’orecchio di Ivan, sul suono, prima debole e indistinto, poi chiaro e identificato, della "campana" della chiesetta rurale. È come se l’occhio non bastasse o servisse più a Ivan per capire la profondità della vita e avesse bisogno di questo supporto sonoro per entrarvi. E questa campana, col suo tintinnio, risveglierà in lui qualche moto di speranza… Si può dire che il capitolo rappresenti un punto di svolta del romanzo? Il punto in cui il cuore e la mente di Ivan cambiano rotta e intraprendono il cammino della consapevolezza del proprio appartenere ad un’umanità più universale rispetto a quella percepita e millantata (più a se stessi che agli altri) fino a quel momento, intrisa di personalismo e autocom-piacimento? A giudicare da quello che si comincia a intravedere da subito e da quello che accadrà nei successivi capitoli, sembrerebbe proprio di sì. Quel vecchio indesiderato compagno di viaggio non rappresenta forse il punto di partenza per la riflessione del boiaro sull’umanità che lo circonda, sulla propria umanità e su ciò che sempre più li accomuna? Dopo il primo approccio ostile, quello dell’Ivan di sempre, è proprio al vecchio che Ivan segnala il suono della svolta interiore, della crisi spirituale. Non può non avere un senso questa coincidenza.

Nel nono capitolo ritorna il "rosso". Ora è il rosso della rivoluzione. Soprattutto, è il rosso imposto dalla rivoluzione. Il rosso delle fiamme, del sangue, dei baffi rossicci del giovane rivoluzionario, del copricapo dell’ufficiale di cavalleria Žukov (beniamino della sorella Anastasia al tempo multicolore dei salotti mondani), della divisa dell’ufficiale cosacco. Un’orgia di rosso mescola uomini, vite, ambiente, ansie, al sangue guizzante e sparso. Un quadro sintetico, ma nitido, della rivoluzione.

Come irridendo a tanta miseria, morte, fame e paura, ammicca nel capitolo decimo l’"oro". L’oro del candelabro, che compare durante la narrazione in tutte le posizioni e in tutti i luoghi: bagliore che lampeggia tra vesti consunte, poveri cibi, rare vettovaglie. E l’oro del denaro che tintinna in tasca ad Anastasia. Il simbolo della ricchezza irride ormai solitario alla miseria degli uomini, anche di quelli che dietro ad esso nascondevano la loro umanità fragile, ormai uscita allo scoperto e non più sorretta da quel bagliore. Gli uomini come Ivan si sono separati, affrancati, liberati da quella prigione, loro malgrado, senza preventivarlo, ma con cuore più libero. Ecco un passo ulteriore nel cammino della liberazione spirituale che viene evidenziandosi dal capitolo ottavo in poi e che lo giustifica come punto di svolta. Ecco che si va delineando il messaggio portante dell’Autore, che diverrà chiaro alle ultime righe del romanzo.

Il "marrone" del legno pervade il capitolo XI: quello degli assi del castagno, dei ramoscelli buoni da ardere, della casa rurale di Sergej, delle scale del campanile, della strage dei monaci, della trave della campana, della stampella del giovane rivoluzionario, unica eredità della rivoluzione che ha combattuto. Quel legno rigido dell’ideologia che riveste il cuore del giovane rivoluzionario; il legno rigido del cuore della madre, chiusa in un dolore che maschera con la fierezza, pronta a coprire la follia del figlio con la pietà materna.

Come quello di un tunnel, il "nero" ritorna nel penultimo capitolo. È il nero della morte, della morte di qualcosa che in qualche modo appartiene anche ad Ivan [...] Il nero avvolge la fuga del bolscevico assassino e la campagna circostante, gelata, come ogni vitale legame di Ivan in questo mondo. Il capitolo si chiude con l’immagine di qualcosa che si apre: si delinea in modo quasi dantesco, l’uscita dalle tenebre di quell’inferno di odio, di vizi, di guerra, di rabbia, di follie, di frivolezze, di morte, di gelo, verso quella che sembra la strada della definitiva libertà.

Sembra”, perché l’Autore ripropone un’altra scena di morte, questa volta ad opera degli zaristi. In questo capitolo ogni colore scompare nel bianco dell’alba e restano in evidenza solo gli uomini. Gli uomini privati delle speranze, degli affetti - da qualunque parte siano stati colpiti -, delle certezze, del futuro. Gli uomini che si riscoprono per quello che sono: gli uni accanto agli altri, muti davanti al dolore, ma più pronti a guardare negli occhi il dolore dell’altro e a intrecciare le mani per impugnare la pala che seppellisce, nell’ultimo gesto di pietà, i loro morti. Ivan non si era fermato a seppellire [...] ma ora, con il padre della ragazza, seppellisce nel cuore anche [...], perché l’incontro con il dolore altrui è un incontro con la verità: questa è la vera libertà. L’intimo pensiero finale di Ivan: “Dovrà pure arrivare l’alba!” è anche un’apertura alla speranza.

Non ho volutamente toccato nessun aspetto riguardante la Russia e la sua rivoluzione dal punto di vista storico. Qui è lo spirito dell’Autore che parla, come in un’intima ispirazione, travestita da storia russa. Ma è solo una veste esteriore. Il vestito potrebbe essere qualunque, con gli stessi colori.

Il romanzo è una voce che parla da cuore a cuore: nell’attuale situazione di crisi un romanzo così sa, con discrezione, essere una piccola luce per il cuore di ognuno, contadino o boiaro che sia!

Villorba, maggio 2012

MASSIMO VALLI,
Circolo di lettura "Matilde Serao"
affiliato all'Associazione culturale
"Nizza italiana"
















Commenti

  1. I dati del libro sono:

    "Il boiaro" (romanzo), di Carlo Silvano, Edizioni del noce 2012, pp. 126, euro dieci, isbn 978 88 87555 92 9
    Il volume - distribuito da Il Messaggero - si può ordinare in tutte le librerie.

    Altre info si possono chiedere inviando un email a silvcarlo@tin.it

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