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La fine di Maometto, fondatore dell'Islam

La fine di Maometto, fondatore dell’islam
A proposito delle posizioni della scrittrice algerina Assia Djebar

di Carlo Silvano
In diverse opere è stata affrontata la questione relativa alla ribellione all’islam - da parte di diverse tribù della penisola arabica - nata per cause religiose ed economiche dopo la morte del profeta Maometto, con la conseguente repressione che causò una strage di uomini e la riduzione in schiavitù per vecchi, donne e bambini. Non si considera nella giusta misura, però, l’esclusione dei familiari del "messaggero di Dio" dalla successione dei beni posseduti dal "profeta", come pure dalla guida politica e religiosa della comunità musulmana. In un suo libro l’affermata scrittrice algerina Assia Djebar descrive particolari situazioni storiche e mette in bocca a Fatima, una delle figlie di Maometto, delle frasi agghiaccianti che dimostrano come nell’islam sia stridente la disparità tra uomo e donna, e come anche oggi nel mondo musulmano ci siano "voci" che trovano la forza per denunciare sofferenze e drammi vissuti tra i veli degli abiti femminili e tra le mura domestiche.
     Riguardo alla morte di Maometto - appena questi si rende conto che è giunta la sua ora e vuole uno scriba per dettargli le sue ultime volontà - Assia Djebar la descrive così:
"Muhammad chiese alle proprie mogli, tutte presenti, di mandargli uno scriba, A’isha portò il proprio padre Abu Bakr, Hafsa tornò anch’essa con il padre Omar e le altre andarono a cercare Ali, il genero e figlio adottivo. Vedendo tre persone invece dell’una sola che desiderava, Muhammad volta la testa e resta in silenzio. Poco dopo, muore: di colpo si fa presente l’incertezza per la successione e per il modo in cui attuarla, per la persona stessa del successore"[1].
In queste poche righe si sintetizza bene il presagio che Maometto ha avuto del futuro dell’islam: dopo aver unificato diverse tribù in un popolo conferendogli una precisa identità politica, sociale e soprattutto religiosa, Maometto prima di morire vuole uno scriba - cioè un soggetto istituzionalmente riconosciuto come addetto per l’ufficializzazione giuridica degli atti - ma deve constatare che le sue stesse mogli, a cui si è dovuto rivolgere, approfittano della loro posizione per scatenare una guerra di successione. Due di esse infatti provvedono subito a chiamare il rispettivo genitore in modo da metterlo in condizione di vivere da protagonista questo momento particolarmente delicato nella trasmissione e gestione del potere, mentre le altre chiamano un terzo uomo. Anche se quest’ultimo fa parte della famiglia di Maometto (genero e figlio adottivo), comunque non è la persona "desiderata". Perché Maometto, di fronte a questi tre uomini, non parla? Perché non indica e consacra il suo successore?[2] Evidentemente è consapevole che in quegli ultimi istanti che gli restano da vivere le sue parole non hanno più alcun peso, e che dopo la sua morte sorgeranno comunque rivalità tra quanti aspirano al comando della "umma", ovvero della comunità islamica. E su questo punto Maometto fu davvero un profeta. Assia Djebar, infatti, scrive:
"Secondo altri ancora, le dispute per la successione dureranno tre giorni. Tre giorni durante i quali le spoglie dell’Inviato, nella stanza di A’isha, sono dimenticate da tutti i musulmani...Gli uomini avrebbero quindi trascurato Muhammad disteso sul letto, ma le sue mogli, Fatima, ultima delle figlie vive, anche lei molto indebolita, le vecchie zie, la dolce Umm Aymàn, Marya la Copta accorsa dalla sua casa lontana, tutte, è certo, si riuniscono attorno al morto, aspettano le istruzioni per il lavacro, per gli ultimi indumenti e per i riti della sepoltura"[3].
     Come non cogliere in questa descrizione - che fa figurare in modo asciutto, priva di tensioni ed emozioni, la morte del fondatore dell’islam presentandola come quella di un comune mortale senza infamia e senza lode - una duplice tendenza: da un lato l’attesa delle donne in lutto, forse raccolte in preghiera e certamente consapevoli della morte di un grande personaggio, dall’altro gli uomini intenti a discutere se con la fine di Maometto non sia morto anche l’islam, ma soprattutto impegnati ad inquadrare le varie aspirazioni e pretese circa la designazione di un nuovo capo politico e religioso. La scrittrice algerina infierisce senza alcuna pietà e aggiunge:
"Come se il corpo dell’Islam dovesse dividersi, generare dal proprio ventre contese e lotte civili, il tutto come tributo pagato alla poligamia del suo Fondatore"[4].
     Assia Djebar pone l’accento - e ciò merita attenzione - soprattutto sulla vicenda personale di Fatima, l’ultima figlia vivente di Maometto, che restando orfana diventa lei stessa una vittima dei detti e dei pronunciamenti del padre. Il califfo Abu Bakr, infatti, come primo successore del profeta Maometto, non ci pensa due volte ad escludere Fatima, e i familiari di questa, dalla successione dei beni paterni. Intanto occorre precisare che alla morte di Maometto, Bakr affermò: "Muhammad è morto. L’Islam non è morto". E a Fatima che reclamava per sé e per i propri figli il diritto di ereditare le proprietà di Maometto, Bakr oppose un netto rifiuto sostenendo di aver ascoltato direttamente dal "profeta" quando questi era in vita che "Da noi profeti non è possibile ereditare! Ciò che ci viene dato ci viene dato in dono!"[5]. Tra Fatima e Bakr si accese una violenta disputa e Ali Ibn Abu Tàlib, marito di Fatima, che non voleva prestare giuramento di fedeltà al nuovo califfo se prima non fosse stata fatta giustizia a sua moglie, corse il serio pericolo di trovarsi con la testa mozzata. Lo scontro si fece duro e non si evitarono parole infuocate come quelle pronunciate da Fatima contro Omar, braccio destro del califfo, che fu pubblicamente apostrofato con questi termini:
"Avete lasciato il cadavere del Profeta nelle nostre mani, mentre vi preoccupavate di sistemare tutto solo tra di voi! Non avete aspettato di conoscere il nostro parere e non vi siete preoccupati dei nostri diritti!"[6].
     Le parole pronunciate da Fatima sono dardi che uccidono: se da un lato il corpo senza vita del profeta abbandonato su un letto si raffreddava col passare delle ore da quando era sopraggiunta la morte, dall’altro si riscaldavano gli animi di quanti avevano interesse ad acquisire e a gestire il potere. Il diverbio tra Fatima e Bakr terminò solo sei mesi dopo la fine di Maometto quando la figlia del profeta, a sua volta, scese che ancora giovane nella tomba. La vicenda umana di Fatima viene così sintetizzata da Assia Djebar:
(eccola qua) "Fatima, la spodestata dei suoi diritti, la prima in testa a un’interminabile processione di ragazze per le quali la mancanza di eredità di fatto, sovente applicata dai fratelli, dagli zii, dai figli stessi, tenterà di instaurarsi per arginare a poco a poco l’insopportabile rivoluzione femminista dell’Islam di questo VII secolo cristiano!"[7].
     Morta Fatima, il mondo islamico perderà la sua prima protagonista della questione femminile: il marito, rimasto vedovo, si affretterà a giurare fedeltà al califfo Bakr e potrà così contrarre nel corso della sua vita altri otto matrimoni, lasciando alla sua morte tre vedove ed un consistente numero di figli. Finché Maometto restò vivo, infatti, ad Ali Ibn Abu Tàlib fu in pratica "proibito" di sposare altre donne e, suo malgrado, fu costretto ad accettare una relazione monogamica, in modo da non arrecare dispiaceri alla moglie Fatima che, essendo la figlia del "profeta", si trovava in una situazione privilegiata rispetto alle altre donne. Anche questa storia è una dimostrazione di come nell’islam vigano - sia ai tempi di Maometto ma purtroppo anche oggi - pesi e misure differenti. (tratto dal libro di Carlo Silvano, “Cristiani e Musulmani, Costruire il dialogo partendo dai fatti di borgo Venezia di Treviso”, Edizioni del Noce 2003, pp. 88).


[1] Assia Djebar, "Lontano da Medina - Le donne al tempo del Profeta", ed. Giunti 1993, p. 55. Nata nel 1936 a Cherchell, in Algeria, Assia Djebar è docente universitaria ed autrice di romanzi e saggi storici.
[2] Sulle lotte politico-religiose per la successione a Maometto si veda Francesco Villano, “L’islam tra origine e modernità”, op. cit., pp. 21-22.
[3] Assia Djebar, "Lontano da Medina - Le donne al tempo del Profeta”, op. cit., p. 11.
[4] Ivi, p. 55.
[5] Ivi, p. 75.
[6] Ivi, p. 73.
[7] Ivi, p. 75.



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