E'
un diario breve ma ricco di spunti
per la riflessione personale quello
che don Olivo Bolzon, classe
1932 e parroco emerito
di San Floriano di Castelfranco
Veneto (Tv), ha pubblicato recentemente
(“Diario. Un prete della diocesi di
Treviso racconta la propria esperienza lavorativa
come spazzino nella città di Colonia
nel 1964”, Ogm editore 2007, pp. 80,
euro 8.00, isbn 978-88-95500-01-0). E’ stato
scritto nel 1964 quando don Olivo, prete
da nove anni, si presentò nella città tedesca
di Colonia per fare lo spazzino: andò
ad abitare in un casermone con altre 130
persone e i suoi compagni di lavoro non conoscevano
la sua vera identità, così che egli
ebbe la possibilità di conoscere da vicino
un mondo, quello operaio, fatto di incertezze
e timori per il futuro, di lavori alienanti e
monotoni, di valori profondi e anche
tanta diffidenza verso i preti. Il libro ha ottenuto il
patrocinio morale dall’Associazione culturale “Nizza
italiana” ed è inserito nella collana “Questioni
di identità”..
-
Don Olivo, pubblicando questo Diario a
quale tipologia di lettori si rivolge?
Anzitutto
questo “diario” che ha ormai la
veneranda età di 43 anni, tratta un particolare momento
vissuto nell’arco di cinque anni
passati a Bruxelles come Assistente delle
ACLI, in un tempo in cui l’emigrazione verso
i Paesi del Nord-Europa era un
fatto massiccio della nostra terra. E’ da ricordare
che queste persone giovani tornavano da
anni terribili di guerra vissuti sempre pericolosamente.
Appena tornati alle loro case,
per aiutare le loro famiglie si sono ripresi la
famosa valigia di cartone per andare in altri
paesi d’Europa: Francia, Germania, Olanda,
Belgio. I loro volti erano i volti amici
della mia fanciullezza, la mia strada non era
la loro, ma l’amicizia vissuta nel piccolo paese
dove siamo nati, era la base per una comunione
profonda con loro. Mi ha colpito molto
che avevano una sola possibilità di
lavoro: la miniera. Era un lavoro rifiutato dai
locali e da loro accolto come unica possibilità
di sopravvivenza per le famiglie. Questo
diario ha la grande ambizione di
rivivere e riproporre i valori umani di questa gente:
il loro spirito di amicizia, l’attaccamento alla
loro terra, l’onestà di una vita
spesa per gli altri, una educazione cristiana penetrata
nel loro intimo.
-
Adesso come giudica quell’esperienza? La
rifarebbe?
A
quarant’anni di distanza questa esperienza diventa
non solo un caro ricordo, ma anche
la coscienza che loro mi hanno insegnato a
diventare prete come colui che condivide la
vita degli esclusi, e con loro rivive la
speranza. Non posso mai dimenticare quella esperienza
che ha orientato tutta la mia vita,
sia come ricerca spirituale, sia come impegno
quotidiano. Infatti la sua prosecuzione immediata
è stata un anno di formazione a
Lione nell’associazione dei preti del
Prado e poi il servizio che la Chiesa italiana
iniziava allora, nel Seminario per l’America
Latina.
-
Oggi sembra che la Chiesa non abbia più
bisogno dei cosiddetti “preti operai” però,
Le chiedo, secondo lei a un giovane prete
prima di “buttarsi” a capo fitto nel suo
ministero sacerdotale sarebbe opportuno che
facesse anche un breve periodo di
lavoro?
Il
fatto dei preti operai l’ho vissuto come
una grande profezia per tutta la Chiesa
e come leggiamo nel Vangelo i profeti sono
sempre scomodi per le istituzioni, in
particolare in Italia la gerarchia non è mai
stata favorevole a questa scelta che era
poi di piccoli gruppi di sacerdoti. Oggi
le scelte di frontiera sono sempre una
incarnazione con i più poveri e gli esclusi.
Le comunità di accoglienza dei
tossicodipendenti,
dei diversamente abili, e
in genere degli esclusi testimonia una continuità di
impegno a vivere il messaggio evangelico da
parte di tanti preti su questa frontiera.
Con questo non voglio dare nessun giudizio
sul normale lavoro pastorale e certamente
un’attenzione ai più poveri è una necessità
vitale per noi preti.
-
Dopo otto ore di lavoro sembra che anche
la semplice partecipazione ad una Santa
Messa fosse per Lei cosa difficile da vivere.
Può parlarcene?
Il
desiderio della Messa quotidiana era forte,
e nel periodo in cui lavoravo proprio a
pulire la piazza del grande duomo di Colonia,
avevo la possibilità di partecipare alla
prima Messa alle 6. Non mi è stata data
però, anche se tanto richiesta, dalla Curia di
Colonia la possibilità di celebrare la Messa
alla sera, né la Chiesa ufficiale, ha dato mai
segno di riconoscimento di questa presenza.
Era solo un fatto mio privato e questa è
stata per me una grossa difficoltà.
-
Cosa le resta - sotto il profilo sacerdotale e
umano - di quel mondo lasciato in un casermone
abitato da circa 130 nostri connazionali?
Anche
oggi i problemi dell’emigrazione sono
fondamentalmente gli stessi. Siamo noi ora
a ricevere gli immigrati e siamo noi a condannarli ai
lavori più umili e degradanti. Per
esempio ho amicizia con una famiglia di
Curdi dove solo il marito ha trovato lavoro
in una discarica. Deve
accettare lo sfruttamento quotidiano delle
dodici ore al giorno di cui solo otto pagate regolarmente
e le altre fuori busta. Ha dovuto
accettare di comperare una casa vecchia venduta
dal comune a un prezzo ragionevole
e rivendutagli da un’agenzia a un
prezzo esorbitante per cui ha dovuto accendere
un mutuo con una banca. La
stessa diffidenza con cui noi eravamo accolti,
ora noi la mostriamo nei confronti di
questi nostri fratelli. Sembra che le esperienze umane
non insegnino mai niente di positivo.
Comunque il fenomeno della migrazione
è uno dei grandi segni dei tempi
che siamo chiamati a vivere.
(a
cura di Carlo Silvano)
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