Ho letto in questi giorni
il libro “Lettere dalle case chiuse”, a cura di Lina
Merlin e Carla Barberis, pubblicato nel 1955. E' una raccolta di
settanta lettere scritte da ragazze che si prostituivano e che –
come esse stesse raccontano – venivano reclutate tra quante
vivevano in condizioni di estrema povertà. Solo qualcuna di loro
inseguiva il miraggio del guadagno facile. Guadagni, però, che solo
eccezionalmente si verificavano: nei bordelli, infatti, le ragazze
entravano perché povere ed uscivano per andare incontro alla più
squallida miseria. Da queste lettere si evince come i controlli
sanitari fossero inesistenti e consentissero il diffondersi di
malattie veneree, l'alienazione delle ragazze che ogni giorno
dovevano “accontentare” anche quaranta e più clienti, le
umiliazioni delle prostitute più anziane che – per restare nel
postrìbolo – dovevano soddisfare i “vecchi sporcaccioni”, lo
sfruttamento da parte dei tenutari delle case e i silenzi della
Questura. Riferendosi ai tenutari, ai medici e ai poliziotti, una
ragazza scrive: “Tutti mangiano e tutti tacciono”.
Se è vero che la storia
è maestra di vita, allora, alla luce di queste lettere, è
improponibile la riapertura delle “case chiuse” così come
chiedono diversi esponenti della Lega nord. I bordelli non sono mai
stati delle “palestre di vita per i giovani”, ma solo dei luoghi
infernali, così come li hanno definiti le donne costrette a
prostituirsi e a uccidere i propri sogni.
(Carlo Silvano –
Villorba)
lettera pubblicata su "La Tribuna" di Treviso, lunedì 18 febbraio 2013
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