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Le "streghe" raccontate dallo scrittore Gerry Mottis


"Terra bruciata. Le streghe, il boia e il diavolo" è l'ultimo romanzo pubblicato da Gerry Mottis e sta ottenendo un meritato successo con ristampe e anche con un’edizione in lingua tedesca. Dall’uscita del libro ad oggi l’Autore ha partecipato a numerose presentazioni pubbliche, confrontandosi con i propri lettori su temi delicati come la persecuzione, i processi sommari e le condanne che tante persone – soprattutto donne – hanno subito per essere state accusate di stregoneria.Secondo le statistiche afferma il prof. Mottis – il 95% delle donne (e degli uomini) accusate di stregoneria era innocente. Si tratta dunque di una vera e propria barbarie, frutto di un’isteria collettiva che ha causato una catena di morti ingiuste (stimate in diverse centinaia di migliaia di vittime in Europa), di cui nessuno oggi si è ancora assunto la colpa. Di fatto, streghe e stregoni erano persone umili, spesso sole o diverse, che svolgevano attività sociali travisate dalla Chiesa o dai Giudici, che non erano tollerate dal potere vigente. Erano raccoglitrici, guaritrici, levatrici, educatrici, che spesso compivano dei riti di origine pagana nei boschi o nelle radure – o comunque in zone appartate – per invocare Diana, la dea dell’abbondanza, della fecondità, dei buoni raccolti ecc. Riti normalissimi durante tutta l’Antichità che, con l’avvento del Cristianesimo prima, e del Protestantesimo poi, sono invece stati interpretati come cerimonie di venerazione del Diavolo e, di conseguenza, violentemente combattuti. Da un lato, dunque, si può affermare che la “caccia” alle streghe fungesse da “capro espiatorio” per dare una risposta ai mali che affliggevano le società dell’epoca (carestie, malattie o morti improvvise di bestie o persone, frane, valanghe, incendi, devastazioni naturali ecc.), di cui non si conoscevano le cause; dall’altro, invece, era un metodo ragionato di potere e di controllo col “terrore” sulle masse della povera gente, analfabeta e miserrima, o per combattere (processando, torturando, giustiziando) gli avversari politici di un certo rango (soprattutto nelle città)”.
Il prof. Gerry Mottis (1975), autori di diversi libri, vive tra Lostallo in Val Mesolcina e Camorino ed è docente di lingua italiana e storia. Qui di seguito viene proposta, arricchita con delle foto scattate in occasione di varie manifestazioni, una sua intervista sul romanzo storico “Terra bruciata”.  



Prof. Gerry Mottis, alla fine del suo romanzo intitolato “Terra bruciata. Le streghe, il boia e il diavolo”, nella pagina dedicata ai ringraziamenti, viene ricordato anche lo storico ed archivista Cesare Santi…
È un giusto tributo e omaggio a un ricercatore mesolcinese che ha dedicato tutta la sua vita alla ricerca d’archivio il quale ha riportato alla luce una mole importante di materiali del nostro passato di valle, soprattutto relativo ai processi per stregoneria tra il 1450 e il 1750 circa, nonché i processi criminali, trascrivendo e postillando minuziosamente tutti i documenti – specialmente i verbali degli interrogatori – in modo fedele e, nel limite del possibile, completo. Senza il suo immenso lavoro di recupero e trascrizione la stesura di “Terra bruciata” sarebbe stata molto più difficoltosa, lacunosa. Per questa ragione, dedico i miei ringraziamenti a Cesare, per aver condiviso con me una grande passione: la ricerca a favore della conoscenza del nostro territorio.

Nel primo capitolo di “Terra bruciata” viene menzionata la città di Dorenza, ma di essa non si trova traccia in internet: è esistita realmente oppure è un luogo di fantasia?
“Dorenza” è la trasposizione fantasiosa di una località reale chiamata “Glorenza”, situata geograficamente nel Trentino-Alto Adige, nell’Alta Val Venosta, a pochi chilometri dal confine col Cantone dei Grigioni (l’Antico Regno delle Tre Leghe), dove nel 1519 si svolse uno dei più clamorosi e bizzarri processi, ovvero “il processo ai topi”, di cui parlo nel primo capitolo del mio romanzo. I fatti narrati sono realmente accaduti e questa vicenda mi ha permesso, ad inizio romanzo, di far entrare da subito il lettore in un contesto insolito, fatto di leggi arbitrarie e ai nostri occhi persino assurde, come quella di citare in giudizio le schiere di ratti che avevano invaso la città di Glorenza.
Questo nome è stato modificato per fini narrativi in “Dorenza” – luogo dove si svolse il già citato processo ai topi – da dove deriva (ed ecco la finzione letteraria!) il boia (cioè il Ministro di Giustizia) chiamato ad operare nel Comungrande di Mesolcina e Calanca ad inizio 1600.

Il suo romanzo è ambientato nella Val Mesolcina del Seicento e lì, così come in tanti altri luoghi dell’Europa e del Nord America, non era difficile essere accusati di stregoneria. Può, in sintesi, descriverci la tipica figura della “strega” vista da chi la perseguiva con l’intenzione di ucciderla?
La figura della strega moesana è identica in tutto e per tutto alle streghe condannate dai tribunali ecclesiastici dell’Inquisizione (o dal potere laico e civile) su tutto l’arco alpino. Dal punto di vista dei Giudici la strega (o lo stregone) era generalmente una donna ritenuta pericolosa e dunque temutissima, poiché aveva stretto un patto col Diavolo in persona ai “giochi del Berlotto”, ovvero al Sabba, luogo in cui si credeva si tenessero appunto i convegni della setta satanica e dove gli adepti del Male – in cambio del rinnegamento della fede cristiana e dell’adorazione di Satana – venivano “bollati” col “marchio diabolico” ricevendo in seguito dei poteri soprannaturali o delle malefiche polveri, unguenti, pozioni o altro per diffondere il male (generalmente carestie, malattie o morte) nelle comunità alpine, con l’intento di sterminarle.
Alle streghe erano generalmente imputati i seguenti reati: apostasia, satanismo, occultismo, cannibalismo, dissacrazione dei cimiteri e dei simboli cristiani, uccisioni indiscriminate, dominio degli agenti atmosferici a scopi malefici.


Di questo suo romanzo qual è stata la pagina più difficile da scrivere?
L’aspetto più difficile e delicato nella scrittura di “Terra bruciata” è stato il “dare un volto” e una personalità credibili alle presunte streghe che furono davvero processate e giustiziate tra il 1612 e il 1615 di cui parlo nella seconda metà del romanzo. Tutto ciò che noi conosciamo su di esse, in effetti, lo evinciamo dai verbali dei processi, cioè dagli interrogatori spesso condotti sotto tortura. In tal sede, le suddette donne confessavano i loro “crimini” ma raccontavano pochissimi fatti sulla loro vita privata. Della loro vita privata non sappiamo nulla, nemmeno se si fossero mai davvero recate al Sabba. Queste, sotto i ferri del tormento, confessavano ciò che avevano udito durante le letture pubbliche delle sentenze, in un disperato tentativo di salvare la pelle, o almeno di far cessare il tormento. Quando, dunque, ho raccontato la loro vicenda tragica, ho dovuto da un lato restare fedele alla loro storia “vera” e dall’altro generare delle vicende verosimili che potessero rappresentare ciò che realmente è stato. Questo l’aspetto di difficile.

In alcune pagine del suo romanzo, in particolare da pagina 49 in poi, si tocca l’importanza per le
autorità cittadine della Mesolcina e del Val Calanca di avere a disposizione un ministro della giustizia che altro non era che un boia: avere chi eseguiva le condanne capitali significava poter reprimere la criminalità. Ancora oggi, pensiamo agli Stati Uniti d’America, la pena capitale viene considerata importante per fare “giustizia”. Qual è in merito la sua opinione?
Un altro aspetto arduo da comprendere per una persona del XXI secolo è il contesto storico in cui queste persone vivevano, cioè quello a cavallo tra la Riforma e la Controriforma cattolica, le guerre di religione e di potere in Europa, le carestie e le pestilenze, l’altissima instabilità politica di molti Regni e Stati d’Europa, la povertà, la fame, le ingiustizie, nonché le terribili leggi che vigevano. In un tale ambiente, la pena di morte e anche la tortura (introdotta nel XIII secolo) erano accolte come lo strumento “necessario” per reprimere il crimine e per tenere sotto controllo le masse o i sudditi entro i propri territori politici. Fungevano cioè da deterrente.
Per scrivere “Terra bruciata” ho dovuto leggere e interpretare le leggi dell’epoca, apparse negli “Statuti criminali e civili” di valle e, francamente, parecchie di queste paiono oggi piuttosto arbitrarie o addirittura assurde. Pensiamo unicamente al fatto che indipendentemente dall’esito di un processo, all’imputato venivano confiscati tutti i beni mobili e immobili. Si trattata di un vero e proprio “furto legalizzato” ai danni della povera gente.
La pena di morte, poi, non era affatto un deterrente. Basti scorrere il lungo elenco di condanne capitali nella nostra piccola valle per rendersi conto dell’assurdità di tale pratica. Eppure, la morte “pubblica” sul patibolo (in Valle Mesolcina come nel resto dell’Europa, e probabilmente ancora oggi negli Stati Uniti) era ritenuta necessaria per “slavare” le coscienze di tutti e permettere ai più di rientrare nei canoni della (apparente) normalità quotidiana, purificata dal Male.

Terminata la lettura del suo romanzo mi sono chiesto se un boia possa – sotto certi aspetti – diventare o essere considerato un eroe...
Quando ho deciso di scrivere “Terra bruciata” mi sono posto il quesito: come posso narrare la vicenda drammatica della persecuzione delle streghe in modo nuovo e originale? Dopo attente riflessioni, ho concluso che la tematica necessitava di una prospettiva narrativa diversa, ovvero con l’adozione di un punto di vista di un personaggio nuovo, di cui nessuno aveva ancora parlato, cioè “il boia”. Se scorriamo i verbali dei processi, noi sappiamo per certo che gli interrogatori e le esecuzioni erano tenute da un carnefice, poiché è nominata dai Giudici la presenza di un “Ministro di Giustizia”. Si tratta di una figura terribile nell’immaginario collettivo, torturatore e uccisore implacabile di un’infinità di criminali nonché streghe e stregoni. In realtà, la figura del boia – ai fini narrativi – è “affascinante”.
Se indaghiamo storicamente tale figura, scopriamo molte analogie con le vittime di stregoneria: erano persone sole, vivevano ai margini della società, erano al soldo della Municipalità ma svolgevano una professione terribile, erano evitati come dei lebbrosi dalla gente, emarginati non potevano partecipare alle feste di paese o alle celebrazioni religiose, non avevano la possibilità di scegliere il proprio futuro: boia si nasceva (per tradizione familiare), non si diventava! Mi pareva dunque molto interessante mettere in relazione un torturatore schivato dalla popolazione che potesse davvero capire ciò che pativano le “presunte” streghe. Da questa consapevolezza, nel romanzo, nasce da parte del protagonista il desiderio di riscatto e di giustizia “vera”, che permetterà di lenire almeno un poco le sofferenze di molte vittime sfortunate.

Un personaggio del suo libro che mi ha particolarmente incuriosito è il fabbro del villaggio: Gaspare Maffio. Le chiedo come è “nato dalla sua penna” e qual messaggio vuole trasmettere al lettore attraverso questo personaggio.
Maffio è un personaggio nato in itinere, cioè durante la scrittura del romanzo. Fa un po’ da contraltare al potere locale (intransigente, spietato, avido) giacché ex Magistrato cacciato dal Tribunale dei Trenta Uomini della Ragione e innovativo nel suo pensiero “pre-illuminista”, cioè contrario alla tortura come metodo coercitivo per estorcere le verità alle streghe e avverso pure alla pena di morte come espiazione finale della colpa commessa. Il suo discorso finale alla Centena di Lostallo (che fungeva da Assemblea Legislativa vallerana) è il segnale (flebile) di un periodo che sta per cambiare, ma che non è ancora pronto ad accogliere le nuove idee in materia di giustizia criminale e civile. Questo rimane cioè saldamente ancorato alle leggi medievali prodotte in Valle Mesolcina dai Conti de Sacco prima, e dai potenti Signori Trivulzio milanesi poi. Punto di unione tra la coscienza del boia (di cui diventa fidato amico e confessore) e il Tribunale locale, il Maffio assurge così a personaggio rilevante per un’epoca “di mezzo” seppur dominata ancora dalle superstizioni e dall’intolleranza.

Diverse pagine del suo romanzo sono dedicate alla visita pastorale che l’Arcivescovo di Milano, card. Carlo Borromeo, fece in Val Mesolcina. Si trattò di un evento straordinario che ancora oggi ha una sua importanza?
L’evento fu effettivamente straordinario ed ebbe un’eco che arriva fino ai giorni nostri. La visita dell’arcivescovo Borromeo in Mesolcina è però oggi interpretata in due modi: da un lato si intende come una visita “pastorale” atta di fatto a frenare l’avanzata del Protestantesimo ormai giunto da Nord sino a Mesocco, dall’altro, invece, diede inizio ad una fase di repressione della stregoneria e di tutti quegli atti amorali che (sembra) dilagavano nel Comungrande. Così, nell’ottobre del 1583, Borromeo inviò il suo fidato inquisitore dalla Diocesi di Como, Francesco Borsatto, a indagare per lui e processare innumerevoli persone. Ad oggi si contano 110 processi celebrati nel giro di un mese, di cui undici imputati spediti direttamente al rogo con l’accusa di stregoneria, gli altri o morti sotto tortura od obbligati all’abiura, oppure liberati. Una vera mattanza, dunque, che non possiamo dimenticare, e che diede in più l’avvio a un periodo di intolleranza e violenza che durerà fino alla fine del XVII secolo nelle nostre valli.

Il suo romanzo ha avuto diverse ristampe, a breve sarà disponibile anche in lingua tedesca e Lei sta facendo tante presentazioni pubbliche: qual è la domanda che “teme” di più dai suoi lettori quando vengono ad ascoltarla?
Sono molto soddisfatto della risposta del pubblico, non soltanto poiché il libro circola molto bene ed è letto da una moltitudine di persone che ne hanno apprezzato i contenuti, la trama, ma soprattutto la verità storica (anche psicologica, emotiva ed umana) che veicola. Significa che il mio obiettivo è stato raggiunto. Ma sono soprattutto contento che finalmente se ne parli (quasi) apertamente; che la gente del XXI secolo inizi a confrontarsi con il proprio passato buio e crudele, basato sull’intolleranza e la persecuzione del diverso che, purtroppo, sta tornando in maniera inquietante e a grandi passi anche oggi. Come a dirci che la storia è “ciclica”. E questo un po’ mi spaventa, francamente. Non mi spaventa invece nessuna domanda. Ho deciso di raccontare la storia vera delle presunte streghe della mia valle, riportando alla luce i terribili processi, gli interrogatori, le torture e le condanne che esse hanno subìto, usando i nomi reali sia delle vittime sia dei loro carnefici non temendo giudizio o di essere dileggiato.
Il mio intento è quello di mostrare ciò che realmente è stato, senza nascondere nulla; altrimenti farei un ulteriore torto a queste sfortunate vittime del nostro passato buio. Anzi, il mio scopo, durante le molteplici presentazioni pubbliche, è quello di riabilitare l’immagine delle “mie” streghe mesolcinesi, come è stato fatto con Anna Göldi a Glarona, riabilitata nel 2008 con le scuse pubbliche del Comune. Mi piacerebbe che un giorno, anche alle nostre latitudini, qualcuno si assuma la colpa, scusandosi pubblicamente per la barbarie commessa ai danni di povere persone, generalmente donne, perseguitate soltanto poiché diverse o “scomode”. (a cura di Carlo Silvano)


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