(lettera a "Il Gazzettino" del 16 luglio 2025)
“Parole vuote, pensieri assenti”:
la bestemmia come segno
del vuoto culturale e spirituale
di Carlo Silvano
Camminando per le strade di un qualsiasi centro abitato — che sia un viale alberato o il marciapiede di un parco frequentato da famiglie, anziani e bambini — si può assistere a scene ordinarie, frammenti di quotidianità serena. Eppure, in mezzo al fluire spontaneo della vita urbana, capita sempre più spesso di sentire qualcosa che stona: bestemmie pronunciate ad alta voce, con noncuranza, persino con un certo compiacimento. Non si tratta, nella maggior parte dei casi, di esplosioni di dolore o rabbia estrema. Al contrario: sono spesso frasi lanciate per futili motivi — una birra rovesciata sul tavolino di un bar, un pallone perso, una battuta fra amici — come se bestemmiare fosse ormai parte naturale del linguaggio, un intercalare socialmente accettabile.
Questo fenomeno non può essere archiviato come semplice malcostume o rozzezza. La bestemmia, soprattutto quando diventa frequente e apparentemente innocua, rivela qualcosa di più profondo: un impoverimento del pensiero, una perdita del significato del sacro e della misura della parola. In questo senso, l’osservazione “Chi pensa prima di parlare, non ha bisogno di bestemmiare” va ben oltre il tono didattico. Essa coglie una verità che interroga il cuore stesso della convivenza civile e religiosa: la parola è un atto e, come tale, ha un peso, una responsabilità. Chi non pensa, chi parla solo per scaricare un impulso, mostra di non saper abitare il linguaggio come spazio di incontro, di rispetto e di costruzione reciproca.
La bestemmia non è solo un’offesa a Dio, ma anche una ferita inferta al valore della fede altrui, alla sensibilità religiosa come elemento fondativo della persona. In una società pluralista e apparentemente laica, si dimentica troppo spesso che anche il credente ha diritto alla tutela del proprio sentire. Bestemmiare pubblicamente non è un semplice “modo di dire”, ma un atto che nega il rispetto verso chi crede, e che dissolve, parola dopo parola, quel tessuto invisibile fatto di civiltà e umanità condivisa.
C’è poi un altro aspetto che merita attenzione: il silenzio degli altri. Di fronte alla bestemmia gridata, molti — amici, presenti, passanti — non reagiscono. Si voltano, tacciono, magari ridono. È un silenzio che pesa quanto l’offesa: un silenzio che diventa complicità, che rivela mancanza di coraggio o di dignità. In questo atteggiamento passivo si manifesta un ulteriore vuoto, quello relazionale: il venir meno della responsabilità reciproca, del richiamo amichevole, ma fermo a una soglia che non si dovrebbe superare.
Da un punto di vista sociologico e religioso, il linguaggio riflette e, al tempo stesso, modella la cultura. Se la bestemmia diventa accettabile, normale, addirittura “simpatica” in certi contesti, ciò significa che si è smarrito non solo il rispetto del sacro, ma anche il senso della parola come strumento di umanizzazione. Una società che non educa alla cura del linguaggio è una società che rinuncia a educare al pensiero, al rispetto, alla trascendenza.
Il dilagare della bestemmia non è quindi un problema marginale, ma un indicatore di una crisi più ampia, quella del rapporto tra parola e significato, tra libertà e responsabilità. Recuperare il valore del silenzio, del pensiero prima della parola, del limite come forma di rispetto, è oggi un’urgenza tanto educativa quanto spirituale. Non si tratta di moralismo, ma di civiltà.
Perché, in fondo, è vero: chi bestemmia non ragiona, e chi ragiona non bestemmia. E se vogliamo sperare in una società più giusta, più umana e più spiritualmente viva, dobbiamo tornare a insegnare — con pazienza e coraggio — che ogni parola ha un peso, e che il linguaggio è lo specchio più fedele dell’anima di un popolo.
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Il presente blog è curato da Carlo Silvano, autore di numerosi volumi. Per informazioni cliccare sul collegamento alla Libreria Feltrinelli: Libri di Carlo Silvano su Feltrinelli
“La figlia del professore” (romanzo). In un appartamento popolare ai margini di una città anonima, avvolto nel silenzio e nel tempo sospeso delle vite spezzate, un uomo si aggira tra i propri fantasmi. Ha quasi sessant'anni, un passato da docente liceale stimato e un'antica fede politica coltivata nei circoli della Sinistra militante. Oggi è un uomo solo, malato, dimenticato. La sua compagna lo ha lasciato anni prima, abbandonandolo assieme alla loro figlia. Le cause legali perse lo hanno trascinato nel baratro economico, privandolo della dignità e della serenità. Vive tra debiti e una malattia cronica che lo piega ogni giorno un po' di più. Ma il dolore più grande è proprio tra quelle mura che un tempo erano casa: sua figlia, poco più che ventenne, si prostituisce per pagarsi la droga, portando clienti nella stessa casa dove lui legge, riflette, sopravvive. Il romanzo si muove tra le ombre dense di questa convivenza muta e tesa, raccontando con lucidità e compassione il lento disfacimento di due vite: quella del padre, che rilegge la propria esistenza alla luce di fallimenti personali, errori politici, ideologie sostenute senza piena coscienza, e quella della figlia, che vive intrappolata in un presente devastato, ma ancora attraversato da sprazzi di umanità. Entrambi abitano uno spazio fisico e interiore segnato dall'abbandono e dalla disillusione. Eppure, tra le pagine, emergono anche frammenti di affetto non detto, ricordi tenaci di un giorno al mare, di uno sguardo paterno, di un'infanzia che poteva essere diversa.
"Una ragazza da amare", di Carlo Silvano, è un romanzo breve rivolto soprattutto agli studenti e ai docenti: racconta le avventure di alcuni liceali che affrontano la grave malattia di un'amica, gli studi e un sogno musicale. Nel libro l'autore fa chiari riferimenti alla sua terra d'origine, dimostrando una vasta conoscenza della città di Napoli e facendo conoscere vie, scuole, piazze e monumenti che i suoi protagonisti frequentano. Nel romanzo i luoghi sono descritti con dovizia di particolari: chi li conosce corre ai propri ricordi, mentre chi non li ha mai visti può averne un quadro chiaro grazie alle descrizioni offerte. Gli odori, le atmosfere e il contesto della città fanno da sfondo, ma ritornano spesso. Ricorrente è il mondo della scuola: la maggior parte delle vicissitudini dei protagonisti avvengono tra i banchi del liceo e hanno, comunque, a che fare con lo studio. Il libro ha una sua precisa trama e alla fine lascia che sia il lettore a immaginare le strade che ogni personaggio può aver intrapreso. Nello stile di scrittura dell'autore appare evidente il suo approccio morale e dietro la trama e le avventure dei personaggi corre velatamente un messaggio educativo-didattico.
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