"La figlia del professore",
(romanzo)
di Carlo Silvano
terzo capitolo
Ci sono capitoli nei romanzi in cui, senza troppi clamori, accade qualcosa di irreversibile. Il terzo capitolo de La figlia del professore è uno di quei passaggi in cui la tensione non esplode, ma serpeggia, silenziosa, tra le pieghe delle parole, nei gesti non detti, nelle cose che i protagonisti non riescono ancora a confessarsi. Qui, il romanzo si addentra con passo discreto, ma deciso nel cuore del conflitto: non quello plateale, esterno, ma quello intimo, profondo, che lacera dall’interno.
È un capitolo di soglie: tra passato e presente, tra ideali e realtà, tra ciò che si è taciuto e ciò che rischia di emergere. Ed è proprio in questo equilibrio precario che il lettore comincia a intuire che non si tratta soltanto della storia di un padre e di una figlia, ma del riflesso di un’intera generazione che, tra disillusione e necessità di ricostruzione, cerca ancora oggi un filo da riannodare.
Chi ha vissuto una militanza, chi ha cercato la verità nei fatti e nelle relazioni, chi ha creduto – e poi ha vacillato – troverà in queste pagine una risonanza familiare. E chi non ha ancora affrontato certe domande, forse, sentirà nascere dentro una voce nuova, sommessa, ma insistente: quella che ci chiede chi siamo, davvero, quando crollano le certezze.
Questo terzo capitolo non offre soluzioni, ma le premesse di un percorso interiore autentico. È da qui che il romanzo comincia a mostrare il suo cuore più vivo e vulnerabile. Ed è difficile, da questo punto in poi, smettere di leggere.
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Capitolo III
La notte era scesa da ore, densa, col suo carico di ombre e silenzi. Il professore dormiva sul divano, raggomitolato sotto una coperta lisa, il fiato lento, un tremolio leggero alla mano sinistra. Il televisore acceso senza volume proiettava immagini che scorrevano indifferenti, riflettendosi sul volto invecchiato e pallido dell’uomo.
Fu svegliato di colpo.
Voci concitate, grida spezzate, un tonfo secco, poi la voce metallica di un citofono ripetuto più volte, come un’allerta. Si mise a sedere con fatica, la testa pesante, le ossa che scricchiolavano. Si passò una mano sul viso e ascoltò.
«Apri, dai, non fare la cretina!». «Oh bella, lo so che sei lì, apri ‘sto portone!».
Poi il suono di pugni, forse calci, contro il portoncino del condominio.
Si alzò a fatica, andò alla finestra. Non riusciva a vedere chi c’era sotto casa sua, ma sapeva benissimo che erano i soliti due ragazzi, vent’anni o poco più, uno sempre con una giacca lucida e l’altro col berretto all’indietro, che oscillavano davanti all’ingresso. Gridavano frasi confuse, metà provocazioni, metà minacce.
Nel silenzio della notte, ogni parola rimbalzava lungo le scale, tra i balconi, contro le tapparelle abbassate dei vicini.
Poi un’altra voce, dall’alto: «Chiamate i carabinieri, di nuovo! Ma basta, non se ne può più!».
E poi ancora: «Quel via vai a tutte le ore… È uno schifo! In quella casa succede di tutto!».
Il professore si lasciò cadere sulla sedia accanto al divano. Sapeva già come sarebbe andata. L’ennesima volta. Altri due idioti convinti che con pochi euro si può comprare tutto, pure il diritto alla violenza.
Poco dopo, le luci blu dei lampeggianti colorarono il cortile e il muro del soggiorno. Due carabinieri scesero da una pattuglia, parlarono con i ragazzi, li identificarono, li calmarono, poi li allontanarono.
Le voci, prima feroci, cominciarono a spegnersi. Il portoncino era sempre chiuso, qualcuno sbatté una finestra. La calma tornò, come torna la quiete dopo un brutto sogno che lascia però le lenzuola bagnate di sudore.
Nel silenzio che seguì, lui notò la bottiglia sul tavolino. Vuota. Di un liquore ambrato, che non ricordava nemmeno di avere in casa. Accanto, un bicchiere scheggiato.
Poi, la vide.
In un angolo, rannicchiata contro il muro, la figlia. Con le ginocchia al petto, la fronte poggiata sulle braccia, singhiozzava piano. Un suono soffocato, fragile, infantile.
Lui la guardò a lungo. Non disse nulla. Non si mosse. Non ne aveva la forza, né il coraggio.
Tornò a stendersi sul divano. Chiuse gli occhi.
«Domani…», sussurrò tra sé, senza finire la frase. Perché lo sapeva: domani sarebbe stato uguale a oggi.
Si lasciò riavvolgere dal sonno, come un uomo che affonda lentamente sotto il peso dell’acqua.
Nel buio, il pianto di lei continuava a tremare nell’aria. Ma lui, esausto, smise di ascoltarlo.
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