Penso, quasi con inquietudine, al modello di pensiero che anima, sotterraneamente, la figura del professore nel mio romanzo intitolato "La figlia del professore". Non lo enuncia mai esplicitamente, eppure lo si avverte: nei suoi silenzi, nel modo in cui guarda il mondo e anche – forse soprattutto – in ciò che sceglie di non fare, di non dire. Il professore è un uomo razionale, educato alla logica, alla pianificazione, all’ordine. Ma è anche un uomo profondamente deluso: dalla politica in cui ha creduto, dalle ideologie che pensava potessero rifondare il mondo, dagli affetti che non ha saputo custodire. E in quella delusione si è fatto spazio un pensiero rigido, quasi meccanico, che assomiglia pericolosamente al progetto di una società perfettamente funzionale, priva di contraddizioni e, quindi, anche di umanità.
Per lui, forse per difesa o per disperazione, l’ideale diventa quello di una comunità dove ognuno ha un compito chiaro, un ruolo preciso. Come nelle colonie di formiche: ogni individuo si muove secondo uno schema prestabilito, non mette in discussione il proprio posto nel mondo, non esita, non sbaglia. Una società simile, se portata alle estreme conseguenze, deve però eliminare tutto ciò che ne ostacola il funzionamento. E così, inevitabilmente, anche gli individui che non sono più “funzionali” – perché anziani, disabili, depressi, fragili – diventano un peso da rimuovere, qualcosa che consuma risorse senza restituire nulla. Il professore non lo dice, ma lo pensa: in una società fondata sulla produttività, la pietà è inefficiente.
E qui si apre l’abisso.
Perché questo pensiero, apparentemente razionale e persino “necessario” in tempi di crisi, è in realtà un’ideologia della morte. Un’ideologia che riduce l’essere umano a funzione, che sopprime la debolezza anziché farsene carico. Come fanno le formiche che smaltiscono i cadaveri delle compagne trasformandoli in cibo o semplicemente allontanandoli dal nido. Solo che qui non parliamo di insetti. Parliamo di persone. E tra quelle persone ci sono i nostri genitori, i nostri figli, noi stessi.
Il professore, in fondo, è un uomo che ha smarrito il senso della compassione. Che ha dimenticato che il vero fondamento di una società giusta non è l’efficienza, ma la solidarietà. E che un corpo sociale non si salva se elimina le sue parti più fragili, ma solo se riesce a curarle. O almeno a stare con loro.
Scrivendo di lui, ho avuto paura. Perché ho riconosciuto in quell’uomo non solo un personaggio, ma un pensiero che si aggira anche tra noi, oggi. E che può insinuarsi ovunque: nei discorsi sulla “dignità della morte”, nei bilanci pubblici, nei tavoli tecnici, persino nei cuori di chi, magari in buona fede, crede che eliminare chi soffre significhi eliminare la sofferenza estirpandola dal mondo.
Il professore non è un mostro. È un uomo che ha smesso di credere nella possibilità del cambiamento interiore. E proprio per questo, forse, è il personaggio più inquietante di tutta la storia.
Per informazioni sul romanzo cliccare sul collegamento alla Libreria Feltrinelli: Libri di Carlo Silvano
Da una lettrice ricevo su whatsapp il seguente commento:
RispondiEliminaTrovo questo appunto profondamente inquietante e al tempo stesso necessario. La figura del professore, così razionale e spietata nella sua visione di una società “perfetta”, diventa lo specchio deformante di un mondo che sembra aver smarrito il valore dell’imperfezione umana. L’idea di modellare la società secondo lo schema delle formiche, dove chi non produce diventa scarto, mette a nudo una deriva culturale che ci riguarda tutti, anche quando ci illudiamo di esserne lontani. Carlo, questo tuo appunto non è solo un ritratto di un personaggio, ma un monito sottile: ci chiede fino a che punto siamo disposti a sacrificare l’umano sull’altare dell’efficienza. E ci ricorda che, senza compassione, anche l’intelligenza più brillante può diventare disumana.