Il Vangelo nel cuore:
san Paolo, la schiavitù
e la trasformazione dall’interno
(in memoria di Settimio Cipriani)
di Carlo Silvano
San Paolo, apostolo delle genti e autore di molte delle lettere che formano il cuore del Nuovo Testamento, si muove con singolare profondità nell’intreccio tra fede personale e trasformazione sociale. Come fece notare il biblista Settimio Cipriani1 (1919 – 2014), contrariamente a un’interpretazione moderna che, talvolta, cerca il cambiamento attraverso la contestazione diretta delle strutture ingiuste, l’approccio paolino si radica in una logica profondamente evangelica: la vera rivoluzione parte dal cuore dell’uomo, e solo in seguito, in modo organico e duraturo, si riflette sulle strutture esteriori. Un esempio emblematico di questo principio si trova nella sua posizione nei confronti della schiavitù.
Nelle società del I secolo, la schiavitù era una realtà ubiqua, legalmente e culturalmente accettata, presente in tutte le classi sociali e fondamentale per il funzionamento dell’economia. La Chiesa nascente non poteva ignorare questo dato, ma si trovava nella condizione di non avere potere politico né culturale per opporvisi frontalmente. Eppure, Paolo, anziché accettare la schiavitù come dato immutabile, ne mina silenziosamente le fondamenta attraverso una visione cristocentrica dell’essere umano e delle relazioni sociali.
Il caso della Lettera a Filemone è illuminante. Paolo scrive a un cristiano benestante, Filemone, chiedendogli di accogliere il suo schiavo fuggitivo, Onesimo, “non più come schiavo, ma… come fratello carissimo” (Fm 16). La formula è potente e sovversiva, ma lo è per vie sottili: Paolo non lancia un manifesto contro la schiavitù, non organizza un movimento abolizionista, non denuncia direttamente l’istituzione. Tuttavia, nel riconoscere a Onesimo la dignità di fratello in Cristo, Paolo introduce un principio destinato a dissolvere dall’interno l’ideologia schiavista: l’uguaglianza ontologica di tutti gli esseri umani in Cristo.
Questo atteggiamento non è frutto di timidezza o di compromesso con il potere, ma di una strategia evangelica più profonda. Per Paolo, l’unica forza capace di trasformare il mondo è il Vangelo, e il Vangelo opera anzitutto convertendo il cuore umano. La trasformazione delle strutture non è ignorata, ma è vista come frutto, non come premessa, della conversione personale. Paolo non ignora l’ingiustizia della schiavitù, ma lavora per smascherarne l’assurdità alla luce del mistero cristiano. In Galati (3,28) Paolo afferma: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”. Qui non troviamo un programma politico, ma una visione antropologica che ha il potere di generare una nuova umanità.
È significativo che Paolo rivolga esortazioni sia agli schiavi sia ai padroni cristiani (cfr. Ef 6,5-9; Col 3,22–4,1). Agli schiavi chiede obbedienza, ma non in senso passivo o fatalista, bensì come servizio reso a Cristo stesso. Ai padroni, invece, ricorda che anch’essi hanno un “Padrone nei cieli” e che non c’è parzialità presso Dio. Questa simmetria morale non equipara le due condizioni, ma le pone sotto uno stesso giudizio divino, scardinando alla radice ogni giustificazione spirituale della superiorità sociale.
Questa pedagogia dell’interiorità, propria dell’ethos cristiano paolino, non si limita alla questione della schiavitù, ma è espressione di un principio universale: solo il cuore trasformato dallo Spirito è capace di dar vita a relazioni nuove, giuste, liberanti. La carità non può essere imposta dall’esterno, ma nasce dalla fede che opera per mezzo dell’amore (cfr. Gal 5,6). In questa ottica, le strutture oppressive non vanno semplicemente abbattute, ma svuotate del loro senso, rese superflue da una nuova fraternità vissuta.
Certamente, a orecchie moderne, questo approccio può apparire lento, persino ambiguo, rispetto all’urgenza delle ingiustizie. Ma la storia dimostra che il seme piantato da Paolo ha germogliato nei secoli: l’abolizione della schiavitù nei Paesi cristiani non è avvenuta per imposizione esterna, ma grazie a una crescente coscienza dell’incompatibilità tra la fede cristiana e l’asservimento dell’uomo sull’uomo. La testimonianza di cristiani come san Gregorio di Nissa nel IV secolo, san Patrizio in Irlanda, Bartolomé de Las Casas nel XVI secolo o i movimenti abolizionisti anglosassoni, trovano le loro radici nella visione paolina.
San Paolo non è dunque un conservatore sociale, ma un rivoluzionario spirituale. La sua è una rivoluzione che procede per vie invisibili ma potenti, perché tocca il cuore dell’uomo là dove si decide la verità delle relazioni. Egli annuncia una libertà che non è solo emancipazione esterna, ma liberazione interiore. E nel farlo, disegna la via cristiana per la trasformazione del mondo: non partendo dalla violenza contro le strutture, ma dalla conversione dell’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera (Ef 4,24).
In tempi in cui anche i cristiani sono tentati di cedere al primato dell’azione politica o della denuncia sociale come via esclusiva al cambiamento, la lezione paolina rimane attuale e provocante. Solo una fede che cambia il cuore può realmente cambiare la storia. E san Paolo, discepolo fedele del Crocifisso risorto, continua a insegnarci che il Vangelo non si impone, ma trasforma, e lo fa cominciando sempre dall’interno.
1Settimio Cipriani, “S. Paolo e la «Politica»”, in “Lo Stato e i Cittadini”, ed. Dehoniane 1982, pp. 87 – 115.
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