Raccontare il dolore,
dire il silenzio
Scrivere La figlia del professore è stato, per me, un atto necessario: un’urgenza interiore di dar voce a ciò che spesso resta sommerso nel fondo della riflessione personale e della coscienza. È stato anche — e forse soprattutto — un esercizio di consapevolezza sociale, un tentativo di restituire al lettore una narrazione che potesse contribuire a decifrare il nostro tempo. In questa prospettiva, ho sentito il bisogno di rileggere tanti miei articoli e pensieri sparsi alla luce della sociologia della letteratura, che interroga i testi letterari come documenti simbolici e sociali, specchi e insieme vettori dei mutamenti culturali.
La letteratura, lo sappiamo, non si limita a rappresentare il reale: lo plasma, lo interroga, lo mette in tensione. La letteratura rivela proprio ciò che non riesce a dire pienamente. In questo senso, La figlia del professore è un libro che parla molto attraverso il non detto: ciò che non si è detto in tempo, ciò che si è taciuto per quieto vivere, ciò che non si è avuto il coraggio di affrontare, in famiglia, in politica, nella vita. La parola letteraria, in questa opera, assume il compito di scavare nel silenzio, farne emergere il peso e restituirlo al lettore come esperienza condivisa.
Uno dei temi centrali del romanzo — e qui entra pienamente in gioco la sociologia della letteratura — è il crollo delle narrazioni totalizzanti, in particolare quelle di matrice ideologica. Il professore è stato, in gioventù, un intellettuale impegnato. Credeva nella politica come strumento di emancipazione collettiva. Ma col tempo, vede i suoi ideali svuotarsi, diventare merce di scambio, corrompersi. Questa parabola personale si intreccia con quella di una generazione — e di un Paese — che ha assistito alla fine delle utopie, al disincanto delle promesse rivoluzionarie, alla crisi delle appartenenze storiche.
È la stessa parabola che molti autori italiani del Novecento hanno esplorato: da Elsa Morante a Pasolini, da Sciascia a Fenoglio, la letteratura ha spesso mostrato come la politica, quando diventa ideologia dogmatica o cinismo di potere, finisca per generare nuove forme di alienazione. La mia intenzione, nel raccontare la figura del professore, non è tanto quella di condannarlo, quanto di mostrare il suo fallimento come figura culturale: l’intellettuale pubblico che, pur colto e onesto, non riesce a proteggere nemmeno la propria figlia. Questo passaggio da “uomo di idee” a “uomo spezzato” è, a mio avviso, una potente metafora del tramonto di un’intera epoca culturale.
Dall’altra parte, c’è la figlia. Una ragazza senza nome, senza voce istituzionale, senza reti familiari solide. Il suo corpo — esposto, venduto, abusato — diventa il luogo dove si imprimono le fratture del tessuto sociale. Prostituta per sopravvivere alla droga e alla solitudine, non è la protagonista di un’epopea tragica, ma di una quotidianità marginale. In lei si incarna ciò che la letteratura spesso dimentica: il punto di vista di chi è escluso, non rappresentato, non “scrivibile”. E proprio questa scelta — darle spazio senza moralismo né retorica — è ciò che ha orientato molte delle mie decisioni stilistiche.
Dal punto di vista della sociologia della letteratura, quindi, La figlia del professore si propone come dispositivo narrativo di testimonianza. Non nel senso di un’autobiografia travestita, ma come forma di resistenza alla rimozione sociale. Narrare queste esistenze — quelle che la cronaca riassume in poche righe — significa opporsi all’indifferenza, restituendo umanità dove spesso si getta stigma. In questo senso, la letteratura torna ad essere, come in Manzoni, come in Pavese, una forma di responsabilità etica.
Inoltre, nella costruzione narrativa, ho voluto evitare ogni enfasi romanzesca. I personaggi non hanno nomi propri: sono “il professore” e “la figlia”. Una scelta simbolica, certo, ma anche sociologica. Perché sono figure tipo, sono maschere universali. Possono essere chiunque. Il dolore che attraversano non è eccezione, ma possibile destino per molti. E ciò che mi interessa, come scrittore, è la dimensione archetipica del fallimento, della vergogna, dell’amore che arriva tardi.
In conclusione, La figlia del professore vuole essere un romanzo che attraversa i territori della letteratura e quelli della sociologia, ponendosi su quella linea di confine dove il testo non è solo forma, ma anche atto politico, memoria culturale, gesto di cura. La letteratura, credo, ha ancora questo compito: ridare profondità all’esperienza umana, quando il mondo intorno la appiattisce. E ricordarci che, anche nella caduta, c’è sempre la possibilità di dire, di scrivere, di sperare.
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Per informazioni e per reperire il volume "La figlia del professore" si può consultare il sito della Libreria "La Feltrinelli" al seguente collegamento: Libreria "La Feltrinelli" - Libri di Carlo Silvano
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