Ci saranno dei lettori che riguardo al mio romanzo intitolato “La figlia del professore” (sarà pubblicato entro la metà di giugno 2025) si chiederanno: perché scrivere una storia così dura? Così cupa, apparentemente senza vie d’uscita?
La mia risposta è semplice: perché la letteratura non deve consolare, ma svegliare. Non deve nascondere la realtà, ma renderla visibile. E in questo romanzo, la realtà che ho voluto raccontare è fatta di emarginazione, silenzio, degrado. Ma è anche una realtà attraversata da lampi di dignità, da resistenze interiori che non fanno rumore, ma esistono.
Il padre, il professore, non è un santo. È un uomo che ha sbagliato, che ha taciuto quando avrebbe dovuto parlare, che ha rinunciato a lottare fino in fondo. Ma è anche un uomo che prova ancora a interrogarsi, a comprendere, a fare i conti con ciò che ha lasciato marcire. La figlia, dal canto suo, non è un simbolo della colpa. È una creatura ferita, ma ancora capace di desiderare una via d’uscita.
Non mi interessa proporre personaggi esemplari. Mi interessano quelli veri. Quelli che inciampano, che si contraddicono, che soffrono e però non si arrendono del tutto.
E c’è un momento, verso la fine del romanzo, in cui la ragazza scrive una poesia all’alba, dopo una notte insonne. È uno dei momenti per me più intensi del libro, perché in quelle parole — scritte in silenzio, senza pubblico, senza clamore — c’è tutta la potenza della speranza.
Perché sì, questo è un romanzo sulla solitudine, sulla malattia, sulla morte. Ma è anche un romanzo sulla possibilità. Sulla possibilità di scegliere, anche tardi. Di cambiare direzione, anche se tutto sembra compromesso. Di dire: non so come, non so quando, ma ci riuscirò.
E forse è proprio questo che volevo lasciare al lettore. Non una morale. Non una soluzione. Ma una domanda: e io, al posto loro, che cosa farei?
Se questo romanzo riesce a fare spazio dentro di noi per una riflessione vera, allora il mio compito è compiuto. (Carlo Silvano)
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