Capitolo I
Erano le due del pomeriggio e la luce di maggio entrava fioca dalle veneziane chiuse a metà. In cucina, il tempo sembrava sospeso. I piatti di plastica riutilizzati, le posate sparpagliate sulla tovaglia azzurrina e logora, due bicchieri con il fondo opaco per i lavaggi approssimativi: tutto sapeva di stanchezza.
Lui sedeva composto, con la schiena curva, come se volesse occupare meno spazio possibile nel mondo. Davanti a sé un piatto di riso bianco, tiepido e insipido. Ogni tanto sollevava lo sguardo e la vedeva. Lei era lì, dall’altro lato del tavolo, svestita, le spalle ossute e pallide, la pelle segnata da lividi vecchi e nuovi, i capelli spettinati raccolti in un nodo improvvisato. Mangia con lentezza, senza appetito.
Non si parlano. Non serve. Si sono già detti tutto o forse non si sono mai detti nulla.
Poi il campanello. Un suono metallico, inopportuno, che rompe il silenzio e fa trasalire entrambi, ma lei non mostra sorpresa. Si alza, sbuffa. Prende una vestaglia dall’attaccapanni, se la getta addosso senza chiuderla.
«È il vecchio», dice con la voce aspra e va ad aprire.
Lui resta lì, solo, a fissare il piatto. Non alza gli occhi quando sente il saluto educato e dal fondo del corridoio dell’uomo con una voce impastata, gentile, fuori luogo. Non alza gli occhi nemmeno quando sente la porta della camera da letto chiudersi piano.
Allora, soltanto allora, si lascia andare sullo schienale della sedia. Il respiro gli si fa lento, pesante. Chiude gli occhi. E la mente si riempie.
Ricorda com’era, tanti anni prima. Giovane, acceso, convinto. Le assemblee al centro sociale, le manifestazioni, i libri sottolineati con rabbia e passione. Marx, Foucault, Bakunin. Ricorda la voce con cui spiegava agli studenti che la famiglia era una prigione ideologica, che i confini erano invenzioni dei potenti, che le droghe dovevano essere libere come liberi dovevano essere i corpi.
Li guardava dall’alto della cattedra e sentiva che stava costruendo qualcosa. Un mondo nuovo, senza padri né padroni, senza religione né repressione.
E ora?
È lì, seduto nella cucina di un appartamento al terzo piano di un condominio qualunque, con la figlia che vende il proprio corpo nella stanza accanto. Ha meno di sessant’anni e non ha più una cattedra di lettere e filosofia. Non ha più una compagna. Non ha più soldi. Ha solo una malattia che gli mangia le ossa lentamente e un dolore sordo che non sa dove mettere.
Ha predicato la libertà, ma non ha insegnato l’amore. Ha decostruito ogni cosa, ma non ha saputo costruire nulla.
Sente un gemito attutito, oltre la parete sottile. Chiude di nuovo gli occhi. E questa volta è vergogna. Non per lei. Per sé. Per ciò che ha detto, per ciò che non ha fatto.
Poi tutto tace. Passano alcuni minuti.
Il rumore della porta che si apre. Un ringraziamento affrettato, un passo lento che si allontana sul pianerottolo. Lei torna in cucina, si siede con lo stesso sguardo spento di prima.
Non dice nulla. Lui nemmeno.
Accanto al piatto posa qualche banconota, piegata in due. Poi ricomincia a mangiare.
E anche lui, senza guardarla, prende la forchetta.
Il silenzio riprende il suo posto.
Nota dell’Autore
Scrivere questo romanzo ha significato per me attraversare territori interiori fragili, talvolta dolorosi, ma necessari. Non solo per restituire dignità a due personaggi che, pur senza nome, parlano per molti, ma anche per interrogarmi, ancora una volta, sul senso delle scelte, sul peso delle omissioni, sulla responsabilità che ciascuno di noi ha nel mondo in cui vive.
Viviamo tempi in cui il compromesso viene spesso scambiato per maturità e il silenzio per prudenza. Ma ci sono momenti in cui restare in silenzio è tradire. E ci sono ferite che, se ignorate, si trasformano in vuoti destinati a propagarsi dentro di noi e intorno a noi.
La storia del professore e di sua figlia è una storia di silenzi, di errori, ma anche di tentativi – falliti, spezzati, ostinati – di ritrovare un filo, un punto da cui ripartire. È anche un invito, sommesso, ma deciso, a non smettere mai di mettersi in discussione. A interrogarsi su ciò che si è stati, su ciò che si è, e su ciò che possiamo ancora diventare.
Essere al servizio della verità, anche quando fa male, anche quando ci espone, è un dovere morale. Eppure la verità non è solo quella che grida nei tribunali o nei giornali: è anche quella che abita i rapporti, le stanze condivise, i silenzi prolungati tra padre e figlia, tra chi si ama e non si sa più come dirlo.
In un mondo in cui l’interiorità sembra un lusso, prendersi cura di sé diventa un atto di resistenza. Ma non basta: curare se stessi non ha valore se non sappiamo prenderci cura degli altri. Soprattutto di chi ci è vicino. Soprattutto di chi condivide con noi il sangue, la memoria, le radici.
Non sempre possiamo salvare chi amiamo. Ma possiamo provarci. Possiamo restare. Possiamo ascoltare. Possiamo non arrenderci.
E a volte, anche questo basta per cambiare una vita.
Villorba, 24 maggio 2025
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