Passa ai contenuti principali

La figlia del professore, capitolo II

 

Capitolo II

Erano ancora lì. Seduti uno di fronte all’altra, al tavolo della cucina. Il tempo sembrava non essere passato. I piatti erano ancora pieni a metà, il cibo ormai freddo, appassito come i loro volti.

Nessuno mangiava più. Nessuno parla­va. Nessuno alzava gli occhi.

Lei teneva lo sguardo basso, le gambe incrociate sotto la vestaglia slacciata. Lui fissava il bordo del piatto come se volesse attraversarlo. Il silenzio era denso, non ostile, ma logoro.

Poi il campanello.

Un altro suono secco, che rimbalzò sulle pareti. Lei non alzò nemmeno le sopracci­glia. Si alzò con la stessa lentezza con cui si era seduta.

«È quello delle quattro. Sempre in anticipo», mormorò, più per sé che per lui.

Aprì la porta e fece entrare un uomo sulla cinquantina, distinto, profumo trop­po forte. Sorrise con imbarazzo e si lasciò accompagnare nella stessa stanza, con lo stesso rituale, senza parole.

La porta si richiuse.

Lui restò solo, di nuovo. Le mani strette in grembo. Si voltò verso la finestra. Il cie­lo era chiaro, mosso da qualche nuvola lenta. I rami del platano nel cortile trema­vano al vento. E allora, senza volerlo, co­minciò a ricordare.

Era nella vecchia aula del liceo, la catte­dra in fondo, le finestre alte, il sole che ta­gliava le facce degli studenti. Quella volta stava correggendo i temi. Il titolo era: “La famiglia: rifugio o gabbia?”.

Uno di loro — si ricordava ancora il vol­to, magro, serio, con l’aria di chi non ha mai voglia di ridere — aveva scritto paro­le semplici. Non difese la famiglia in astratto, ma parlò della sua, dei genitori che lo ascoltavano, del calore del ritorno a casa, della sicurezza che aveva provato da bambino nel sapere che qualcuno c’era sempre, a ogni ora, per lui.

Lui, allora, aveva letto quelle righe ad alta voce, di fronte a tutti. Lo aveva fatto con tono sarcastico e concludendo aveva detto: «Ecco, cari ragazzi, la dimostrazio­ne che il lavaggio del cervello comincia in culla».

Una risata, quella dei compagni.
Uno sguardo basso, quello del ragazzo.
Il professore si era sentito forte, allora. Sicuro. Aveva go­duto, in fondo, della sua superiorità. Della sua capacità di “smontare” quella verità borghese, convenzionale, da manuale ca­techistico. Ma ora, dopo tanti anni, seduto in quella cucina con la porta chiusa alle sue spalle e la figlia che si vende per qual­che banconota, si chiedeva chi avesse dav­vero ragione.

Quel ragazzo — come si chiamava? non lo ricordava — aveva parlato di rifugio. Di casa. Di presenza.

Lui aveva parlato di liberazione, di autonomia, di autodeterminazione. E adesso la sua unica figlia, l’unica persona che portava il suo sangue, era sola, smar­rita, tossica, esposta a ogni forma di umi­liazione.

Un gemito, poi un tonfo, poi silenzio di nuovo. La porta si aprì dopo qualche mi­nuto. Il cliente se ne andò in fretta, senza nemmeno salutare. Lei tornò in cucina. Si rimise seduta, davanti al piatto. Prese il telefonino, iniziò a scorre­re messaggi, poi dei video, senza un’espressione precisa. Tra loro, ancora, nessuna parola. Solo il suono ovattato dei contenuti che guardava e il ticchettio delle lancette di un in-differente orologio aggan­ciato alla parete della cucina.

Il pomeriggio avanzava. La vergogna re­stava.

Il romanzo "La figlia del professore" si può ordinare e reperire in tutte le librerie fisiche e in rete (on line). Per collegarsi alla Libreria Feltrinelli cliccare sul seguente collegamento: Libri di Carlo Silvano su Feltrinelli



Commenti

  1. Da una lettrice:

    Ciao Carlo,
    volevo dirti che il secondo capitolo del tuo romanzo mi ha davvero colpita. È stato come entrare in una stanza dove l’aria è densa, dove si sente il peso delle cose non dette e dei vuoti che non si riescono a riempire. Rispetto al primo capitolo, che già mi aveva lasciata in sospeso, qui ho percepito una discesa, un avvicinarsi pericoloso al bordo. Eppure, proprio in questo avvicinamento, c’è qualcosa di profondamente umano e necessario.
    Mi ha colpita molto come hai raccontato la solitudine della figlia, senza retorica, senza indulgere in particolari inutili. Ogni parola che hai scelto sembra posata con cura, come se avessi voluto lasciare il lettore accanto a lei, senza rumore. E ci si sente davvero lì: in quegli spazi spogli, tra sguardi che evitano e silenzi che pesano più di mille frasi.
    Apprezzo tanto la tua scelta di non dare nomi ai protagonisti. In questo capitolo in particolare ho capito fino in fondo il perché: quella ragazza, quella figlia, potrebbe essere chiunque. E questo rende tutto più vicino, più vero. Non si tratta solo di lei, ma di tante ragazze invisibili che si muovono ai margini, spesso senza nessuno che le chiami per nome. E il padre – il professore – diventa un simbolo di tante figure che, pur avendo strumenti, cultura, parole, non riescono a usarli dove conta davvero: nel rapporto con chi si ama.
    Dal punto di vista dello stile, ti faccio i complimenti. La scrittura è essenziale ma piena. Non dici mai troppo, eppure arrivi dritto al punto. Mi piace molto come riesci a evocare immagini forti con dettagli minimi: una porta chiusa, un odore nell’aria, un pensiero interrotto. C’è un ritmo sincopato, che segue quasi il respiro della protagonista, come se la scrittura stessa avesse paura di andare troppo oltre.
    E poi c’è quella piccola luce, fievole, ma presente. Non dai false speranze, non cedi all’illusione. Ma lasci aperto uno spiraglio. E ti assicuro che, per chi legge, quello spiraglio vale tantissimo.
    Grazie per aver scritto un capitolo così necessario. Ti auguro che tanti altri lo leggano e si fermino a riflettere, come ho fatto io.

    RispondiElimina
  2. Da un lettore:

    Ho letto il tuo libro, bello scritto come sempre benissimo e con argomenti importanti trattati con grande abilità. Sai però che sono sincero per i miei gusti un po' troppo triste. Io personalmente preferisco leggere storie più divertenti ma ti capisco per trattare quegli argomenti non potevi scrivere una commedia. Io leggendo speravo almeno in una lieto fine, speravo che padre e figlia tornassero a essere una famiglia felice e che la ragazza uscisse con l'aiuto del padre dal tunnel della prostituzione e come si dice: vissero felici e contenti. Ma forse sono troppo romantico e ottimista. Comunque grazie mi ha fatto piacere leggerlo e commentarlo. Ciao e salutami tua moglie e se lo vedi anche Renato e famiglia. (Alessandro)

    RispondiElimina

Posta un commento

Post popolari in questo blog

Nizza, città francese o italiana?

Intervista allo storico e politico Alain Roullier-Laurens LA CITT À DI NIZZA RIPENSA AL SUO PASSATO ITALIANO Ha dato i natali a Giuseppe Garibaldi, artefice dell'unità nazionale Perché in certi libri scolastici non si parla della cessione della città di Nizza e della regione della Savoia da parte del governo di Torino a quello di Parigi nel 1860? Da questo interrogativo prende lo spunto l'intervista che segue, rilasciataci da Alain Roullier-Laurens , fondatore della “ Lega per la restaurazione delle libertà nizzarde ”. Nato a Nizza nel 1946, Alain Roullier-Laurens discende per parte di madre da una famiglia residente a Nizza ancor prima del 1388, anno della dedizione ai Savoia, ed è autore di numerosi libri che hanno provocato scalpore - ogni volta che sono usciti - sull'ideologia indipendentista nizzarda, sui retroscena dell'annessione e del falso plebiscito. I libri di Alain Roullier si basano su documenti inediti ed adoperati per la prima volta, come ...

ROBERT ROSSI, LA FRANCESIZZAZIONE DI TENDA È INIZIATA CON I BAMBINI DELLA SCUOLA

TENDA - « Mi chiamo Robert Rossi e sono nato nel 1944: mia madre è brigasca e conobbe mio padre che svolgeva il servizio militare ne lla GAF, cioè la guardia di frontiera proprio a Briga Marittima. Dopo l’8 settembre del 1943 mio padre fu catturato dai nazisti e portato in Germania, ma finita la guerra ritornò a Briga e si sposò con mia madre per venire a mancare nel 2009 ». Inizia con queste parole l’intervista concessami da Robert Rossi (qui sotto in foto), nato italiano nel 1944 e diventato francese nel 1947, quando il comune di Tenda fu ceduto alla Francia in seguito al Trattato di Parigi. Signor Robert Rossi, a Tenda che lingua si parlava fino al 1945? E qual era il dialetto più diffuso? Oggi qualcuno a Tenda e a Briga parla ancora in dialetto? Fino al 1947 i comuni di Briga Marittima e Tenda rientravano nei confini dell’Italia e quindi la lingua ufficiale era l’italiano. A Briga Marittima era molto diffuso il dialetto locale, cioè il «brigasco», mentre a Tenda ...

Il carcere di Treviso raccontato da don Pietro Zardo

TREVISO - Ha conosciuto il mondo carcerario nel 1996. Prima di allora non era mai entrato in un penitenziario, e proprio ripensando a quel “primo” giorno trascorso a percorrere corridoi e locali dove dappertutto ci sono cancelli, porte blindate e sbarre, don Pietro Zardo ricorda che provò un'emozione molto strana, quasi inquietante. Da circa quattordici anni don Pietro è cappellano della Casa circondariale di Treviso, un luogo per molti aspetti disumano dove vige la regola della sopravvivenza. “Ciascuno vive per sé – riferisce don Pietro – e non esiste quel sistema relazionale che ti permette uno scambio di sentimenti umani, come quelli legati all'accoglienza, alla fiducia, alla solidarietà. Non ci sono aree comuni e anche i pasti vengono consumati in cella. Col tempo non mi sono più posto certe domande e sono cresciuto sul campo, perché quando ho accettato di fare il cappellano a Santa Bona non avevo una specifica formazione. Subito, però, capii che non bisogna commettere cer...