“Come io sono tartaro”:
Giuseppe Garibaldi, Nizza e la Corsica
di
Carlo Silvano
Nel maggio del 1881, Giuseppe Garibaldi (Nizza 1807 - Caprera 1882), ormai ritirato nell’isola di Caprera e consumato dagli anni e dalle ferite della vita, trovò ancora la forza di lanciare una delle sue frasi più celebri e polemiche. In una lettera pubblicata il 17 maggio sulla rivista romana La Riforma, scrisse: «La Corsica e Nizza sono francesi come io sono tartaro». Parole taglienti, pronunciate nel contesto della crisi tunisina — quando la Francia aveva appena occupato la Tunisia, irritando profondamente l’opinione pubblica italiana — ma cariche di un significato che andava ben oltre l’episodio contingente.
Per Giuseppe Garibaldi, Nizza non era soltanto la città dove era nato nel 1807: era una parte viva della sua identità e, nella sua visione, una componente naturale della nazione italiana. La cessione di Nizza e della Savoia alla Francia nel 1860, conseguenza del Trattato di Torino e di accordi diplomatici voluti da Camillo Benso conte di Cavour per ottenere l’appoggio di Napoleone III contro l’Austria, fu per lui una ferita mai rimarginata. Nonostante avesse contribuito in prima persona all’unità italiana, Garibaldi non smise mai di contestare quella decisione, che ai suoi occhi appariva come un tradimento verso le popolazioni coinvolte e verso l’ideale stesso di un’Italia libera e intera.
Nella stessa ottica, la Corsica occupava un posto particolare nella sua visione di una autentica Italia. Pur essendo dal 1768 sotto occupazione francese, l’isola conservava legami storici, linguistici e culturali con la Penisola italiana. Garibaldi considerava la Corsica parte di quella più ampia “nazione naturale” che, secondo lui, avrebbe dovuto superare i confini politici stabiliti dalla diplomazia delle potenze europee. La sua frase del 1881, dunque, non era soltanto un sarcasmo pungente sulla legittimità della sovranità francese: era l’espressione di una concezione del Risorgimento che non si concludeva con Roma capitale, ma guardava ancora oltre il Tirreno e le Alpi Marittime.
L’importanza di quell’affermazione risiede proprio nella sua capacità di condensare in poche parole un intero programma politico e sentimentale. Non era un appello velleitario: Garibaldi sapeva bene che, alla fine dell’Ottocento, le possibilità concrete di un recupero di Nizza o della Corsica erano minime. Ma per lui, pronunciare quella frase significava ribadire un principio, riaffermare una verità storica e morale che non si poteva cancellare con un trattato. Era, in sostanza, una dichiarazione di fedeltà alla propria terra natale e a un’idea d’Italia che non coincideva soltanto con la realtà politica del tempo, ma con una geografia dell’anima e della storia.
In questo senso, la battuta “come io sono tartaro” non va letta come semplice provocazione: è il lascito di un uomo che, fino all’ultimo, volle ricordare che il Risorgimento era stato un movimento di popoli, non solo di governi, e che le frontiere disegnate nelle cancellerie non sempre corrispondevano ai confini della nazione che aveva sognato. Oggi, quella frase continua a essere citata come emblema della sua coerenza e della sua passione, testimonianza di un patriota che non si arrese mai all’idea che la storia potesse concludersi senza aver prima detto, con chiarezza, dove stava il cuore della patria.
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Il presente blog è curato da Carlo Silvano, autore di numerosi volumi. Per informazioni cliccare sul collegamento alla libreria Feltrinelli: Libri di Carlo Silvano




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