Qui di seguito pubblico una parte dell'intervista al pittore Renzo Fabris. Il testo integrale si trova nel volume "Voci Villorbesi".
Il libro è reperibile ordinandolo in tutte le librerie, come la Lovat di Villorba, oppure rivolgendosi direttamente a Youcanprint cliccando su "Voci Villorbesi"
Il
fascino dei volti
e
il mistero degli occhi
intervista a Renzo Fabris
«“Adesso cosa faccio? Da cosa parto?
Vediamo un po’!”, e parto. Posso dire che provo un certo stato d’animo solo
dopo che ho visto come prosegue il mio lavoro e se va bene mi vengono tante
idee e l’entusiasmo mi impedisce di fermarmi, così che a volte salto anche i
pasti. Alla fine mi viene la paura della critica anche se sono soddisfatto per
quello che ho realizzato e poi spero che la mia nuova opera, il mio nuovo
dipinto, possa piacere agli altri anche come conferma della genuinità della mia
pittura». A parlare è il signor Renzo Fabris, classe 1945, che
molti a Villorba conoscono come “l’artista” per i tanti quadri che ha dipinto e
che sono un po’ ovunque.
Signor Renzo Fabris, a che età ha iniziato
a dipingere?
Più che
dipingere - che comporta l’accostare i colori tra loro in modo armonioso - ho
iniziato a disegnare sin da bambino e mi sono accorto di questa qualità innata.
Da bambino, incuriosito dai disegni che realizzava mia sorella più grande di
undici anni, anche lei dotata, li copiavo senza incontrare particolari
difficoltà ed ancora oggi ricordo che eseguivo delle linee sicure. Sono il mio
braccio e la mia mano che sentono il bisogno di “svolazzare e tracciare” e se
vedo una carta bianca cerco una matita oppure se ho una matita cerco un foglio,
perché è come se sentissi il “dovere” di realizzare un disegno. Riempio gli
spazi bianchi di libri e giornali di svolazzi, schizzi, sfumature,
ombreggiature, pupazzi, topolini, paperini e specialmente occhi, occhi, occhi
e… visi, visi e visi. Alle scuole medie gli orli bianchi dei miei libri
scolastici e tutto il vocabolario, erano pieni di omini che, facendo scorrere
le pagine col pollice, correvano su e giù per compiere acrobazie…
Erano i suoi cartoni animati…
Sì, e
c’ero arrivato da solo a capire il modus operandi!
“La
pisoera e la chiesa parrocchiale di Villorba”,
opera
di Renzo Fabris presente nella foto
(Casa
di Giovanna e Tiziano Meneghetti)
C’erano persone che si complimentavano per
questi suoi primi disegni?
Certo,
e a forza di sentirmi dire che facevo dei bei disegni ho iniziato a pensare che
qualcosa di buono lo avevo anch’io e così ho iniziato ad avere una maggiore
autostima dato che in matematica non andavo tanto bene.
Prima ha fatto un accenno a sua sorella che
era molto brava ad eseguire disegni: avete un artista in famiglia?
Sono
figlio di un vero artista anche se non ho mai conosciuto mio padre; non sono
stato un suo allievo e non ho mai visto una sua opera. Tante persone, però, mi
hanno decantato la meraviglia dei suoi lavori ed estri artistici. Pur non
avendo compiuto degli studi mio padre è stato pittore, disegnatore,
ritrattista, filosofo, musicista, prestigiatore… era il classico artista “incompreso”,
ma sono orgoglioso di sapere che lui da giovane realizzava affreschi sulle
pareti delle ville venete. Una volta chiesi a mia madre di poter vedere
un’opera di mio padre, e lei mi rispose di andare a vedere l’affresco che si
trova a villa Ancillotto in via Fontane. Sono convinto che mio padre avesse delle
doti innate che poi ha trasmesso a me.
Qual è stata l’esperienza che ha fatto
maturare in lei la consapevolezza di avere delle doti artistiche?
Avevo
undici anni quando partecipai al primo grest parrocchiale guidato da don Lino,
un intraprendente cappellano, e tra le attività proposte c’era quella di
modellare la creta. Anche se non mi ero mai cimentato in scultura mi capitò il
modello più arduo: la realizzazione di un soldatino seguendo l’immagine
disegnata su un foglio. Lì per lì non compresi ciò che ero stato capace di
realizzare con le mie mani, ma il risultato fu che don Lino convinse mia madre
a farmi studiare in un bel collegio dove si potevano imparare tanti mestieri
legati soprattutto all’arte grafica. In collegio i docenti si accorsero subito
che avevo una certa propensione al disegno e così mi indirizzarono verso la
fotoincisione dove, tra l’altro, era di fondamentale importanza saper disegnare
alla perfezione. E fu così che mi trovai alla scuola dei miracoli…
"Il molino della Croda" di Renzo Fabris
Cosa vuol dire?
Dico
miracoli perché là imparai ad eseguire linee rette come se fatte con la
“stecca” e sempre a mano libera realizzavo cerchi che sembravano fatti col
compasso. In collegio ho imparato tante cose anche per l’esempio che mi
offrivano i miei superiori: persone che avevano scelto di vivere secondo il
modello dei salesiani e quindi con spirito umile e lontano dal primeggiare con
altri. La loro era un’autentica dedizione all’arte.
In collegio, dunque, ha imparato la
fotoincisione?
Sì,
però ho dovuto adattarmi a fare il tipografo perché una volta uscito dal
collegio non c’era, allora, nessuna ditta che a Treviso eseguisse lavori di
fotoincisione e così ho perso – non praticandole – le abilità acquisite durante
i corsi scolastici. Mi è rimasto intatto, però, l’istinto per il disegno.
Un ricordo particolare del collegio?
Tra i
miei superiori c’era un vero “artista” che eccelleva nell’arte pittorica:
illustrava le riviste che stampavamo nella tipografia del collegio, affrescava
le chiese e aveva il mio cognome. Tutti pensavano che fossimo parenti, ma non
era così, anche perché lui era originario del Friuli. Fatto sta che tra le
trecento persone che in quel periodo frequentavano, a vario titolo, l’istituto,
noi due eravamo gli unici ad avere lo stesso istinto pittorico. Ricordo che a
quei tempi gli sciolti in disegno erano più che rari ed io sono cresciuto
pensando di essere pressoché unico anche perché tante persone che conoscevo si
rivolgevano a me se abbisognavano di un disegno. Sin dall’inizio tutti a
chiamarmi “l’artista” benché altri ragazzi dipingessero bene. Ci sono stati e
ci sono tanti ragazzi nati col “dono” dell’artista e che meriterebbero di
emergere, ma intanto i miei conoscenti continuano a definirmi “l’artista”,
forse sarà per il mio carattere un po’ strambo!
Come artista hai qualche rimpianto?
Non
brillo d’ambizione e non ho sogni di gloria. Non mi metto davanti a una tela
pensando: “Ora faccio arte!”. Per questo mio modo di pensare non sono stato
produttivo in quantità d’opere e non mi sono mai impegnato per dare il meglio
così da farmi valere. I soldi non mi stimolano. Sono capace di dipingere e
dipingo perché mi piace e da sempre sono conquistato dall’incanto che mi offre
la natura, affascinato dal mistero dei volti con le loro espressioni e
incuriosito dal segreto degli occhi. La cosa strana è che non copio mai dal
vero e faccio tutto a mente: niente modelli o studi preparatori e bozzetti.
Tante persone mi dicono: “se avessi io le tue mani non so cosa farei!”, e io
penso nel senso di guadagni, ma ciò non mi importa. I quadri che ho venduto si
possono contare sulle dita di due mani; tante, invece, le opere che ho
regalato.
"Castello e girasoli" di Renzo Fabris
Quali sono gli artisti che apprezza di più?
Tutti
quelli del passato che sono riusciti a fare dipinti che sembrano fotografie.
Apprezzo anche artisti come Monet e Van Gogh. Picasso sarà probabilmente un
artista, ma molti suoi lavori non li comprendo e di lui ho una mia personale
opinione. Comunque, per me al primo posto c’è Raffaello: i suoi dipinti mi
trasmettono un’aura beata che mi ricorda ciò che provo quando mi trovo al
calduccio in una stanza e guardo la neve scendere nel silenzio. Certe opere di
Raffaello mi fanno vivere la pace che si può vivere con la carezza di un cielo
sereno dopo giorni di pioggia. I volti dipinti da Raffaello – penso ad esempio
al viso di Maria di Nazareth – sono circonfusi di tenerezza nostalgica o
intenti in ricordi tristi.
Raffaello
mi è piaciuto fin dalle elementari, quando osservai il suo autoritratto che
mostrava una persona buona e timida. Col tempo ho scoperto che qualcosa ci
accomuna nella sensibilità e mi sono accorto di dipingere visi che – senza
volerlo – hanno lo sguardo introspettivo e assorto in pensieri malinconici.
A che età ha realizzato il primo dipinto?
Avrò
avuto 16 o 17 anni quando ho fatto il mio primo dipinto su tela, perché prima
li facevo su cartoncino: mi fu commissionato da una persona e io lo eseguii con
le dita e senza pennelli. Altre volte mi è capitato di dipingere usando le dita,
ma era solo perché in questo modo potevo tirare ed estendere il colore.
Mi può dire qualcosa del suo stile?
Lo
stile e la semplicità di esecuzione delle mie opere sono disarmanti, ma non
devo vergognarmene: tutti i lavori sono testimoni di momenti e sensibilità
della mia vita, poi col tempo si migliora. Ci si sveglia un giorno e si fa una
pennellata, un accostamento di colori, un’idea improvvisa che rende più matura
l’opera che si vuole portare a termine. Quante pennellate sbagliate… ma capita
anche che un pennello intinto cada sulla tela macchiandola e quella macchia si
riveli “azzeccata” e utile per cambiare il modo di creare. Sono autodidatta,
completamente autodidatta. Se poi mi sento dire che sono un artista la cosa non
può che farmi piacere anche se fatico a crederlo.
Qual è il suo colore preferito?
[continua...]
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