Qui di seguito propongo la prima parte di un'intervista a Luisa Bonaveno (psicologa presso l'Istituto penale dei minorenni del Triveneto con sede a Treviso). Il testo integrale dell'intervista è inserito nel volume "Liberi reclusi. Storie di minori detenuti".
II
La
personalità del minore recluso
La
carcerazione è una forte esperienza di privazione della libertà, e
in quanto tale sarebbe molto faticosa per tutti gli adolescenti, che
per le loro caratteristiche evolutive sono attratti dall’autonomia,
dalla libertà e dalla vita sociale.
Ma
chi sono i ragazzi che vengono reclusi in un Istituto penale? Di
questo argomento ho modo di parlare con la psicologa e psicoterapeuta
Luisa Bonaveno, che per circa venti anni ha lavorato nei servizi
minorili della realtà milanese, in particolare quelli della
giustizia, e da circa sette anni segue i minori dell'Ipm di Treviso.
«Gli
adolescenti che entrano in Istituto – afferma la dott.ssa Luisa
Bonaveno – sono quelli che hanno problemi con la Legge e che
normalmente “fuori” conducevano una vita senza regole. Per questo
motivo l’esperienza detentiva può produrre vissuti depressivi
reattivi alla condizione di restrizione, tanto da rimuovere anche
esperienze passate positive, come è il caso, ad esempio, di un
ragazzo che afferma di non ricordare alcun momento bello della
propria infanzia. Tuttavia, può anche essere un'esperienza di
contenimento da cui il giovane riesce a trarre beneficio perché è
costretto a fermarsi, a riflettere e a fare un po’ di ordine nella
propria vita. Per molti ragazzi l’esperienza detentiva è stata
un’occasione di ripresa evolutiva, in quanto hanno ricominciato gli
studi scolastici, si sono sottoposti ad una vita regolata da impegni
e regole di convivenza e hanno riannodato il “filo rosso” della
propria vita. Detto questo, resto però anche convinta che la
detenzione prolungata in un contesto coatto, possa diventare
un'esperienza involutiva o a rischio di fissazione dell’identità
delinquenziale. Questo perché riduce il confronto con i modelli
identificatori - che in carcere sono sempre gli stessi - in una fase
della vita in cui è importante il confronto con la realtà sociale,
in un contesto di vita di normale quotidianità»1.
Dottoressa
Bonaveno, all'Ipm di Treviso arrivano sia ragazzi stranieri che
italiani...
«Sì.
Solitamente abbiamo tre tipologie: ragazzi stranieri non
accompagnati, stranieri di prima e seconda generazione aventi la
famiglia in Italia, e infine i minori italiani».
Chi
sono i ragazzi stranieri non accompagnati?
«In
questo momento abbiamo dei maghrebini, di cui non conosciamo la
famiglia perché si trova in Tunisia o in Marocco, oppure la
conosciamo attraverso quello che i giovani raccontano. Anzi, è più
corretto dire “quello che loro ci vogliono raccontare”».
Può
spiegare quest'ultima affermazione?
«Intendo
dire che spesso i ragazzi solitamente al primo impatto non ci parlano
della loro famiglia, dei genitori, del loro Paese d’origine, ma ci
offrono versioni generiche e vaghe, esprimendo diffidenza nei
confronti degli operatori e dell’istituzione in generale.
Riferiscono che in Italia hanno raggiunto un cugino, uno zio, e solo
nel tempo, quando verificano che possono fidarsi dello psicologo,
degli educatori e degli insegnanti, ammettono che sono soli nel
territorio italiano e che si sono affidati in questo viaggio
migratorio ad adulti delinquenti… penso ad alcuni ragazzi tunisini
e marocchini che hanno raccontato come siano scappati da casa: uno,
ad esempio, per convincere il padre, ha tentato il suicidio ingerendo
veleno per topi, riuscendo così, alla fine, ad ottenere la
benedizione paterna.
Altri
ci offrono versioni che sono copioni; per citare un esempio, alcuni
anni fa abbiamo avuto in carcere un'ondata di adolescenti rumeni che,
guarda caso, avevano tutti un padre morto, violento o ubriacone:
raccontavano vicende familiari raccapriccianti, e molto calcate,
ovviamente per impietosire gli operatori...».
Mi
sembra che la riservatezza e la narrazione colorita e accentuata
esprimano entrambe una sfiducia nei confronti dell’adulto...
«Sì,
perché si tratta di ragazzi che molto spesso sono stati ingannati da
persone adulte. Per questo è necessario un lavoro paziente e
costante con loro; non è semplice rompere la crosta dentro cui si
sono protetti per poter sopravvivere di fronte alla solitudine del
vivere quotidiano in un Paese straniero.
Comunque,
ogni volto rimanda ad una singolarità e ad una storia personale che
è frutto di legame, anche se permane un’opacità legata alla
distanza culturale, alla lingua. Penso a due ragazzi cinesi così
miti e sempre solari, in realtà appartenenti entrambi alla mafia
cinese e che, nonostante la precoce età, erano familiari a scene
molto violente: uno di loro proveniva da un paesino di campagna della
Cina, ed era partito all’età di 14 anni per raggiungere l’Italia.
Ci aveva impiegato un anno e riferiva di aver attraversato
montagne, dirupi, di aver sperimentato per la prima volta la paura,
di aver rischiato la morte, di essere passato per la Russia, e poi
dall’Europa di essere giunto in Italia sempre con mezzi di ventura,
in clandestinità e in compagnia di “amici”.
Un
giorno mi piacerebbe fare un viaggio inverso: andare a conoscere i
luoghi di questi ragazzi e toccare con mano le condizioni di vita da
cui sono scappati, che li spinge ad attraversare esperienze estreme,
ad andare oltre i limiti, per poi adattarsi ad una vita di pura
sopravvivenza in condizioni di marginalità in un Paese straniero. Mi
torna alla mente un ragazzo tunisino che raccontava di aver
accumulato cinquantamila euro attraverso l’attività illecita ed il
suo sogno, una volta scontata la pena, era di ritornare in Tunisia
per acquistare dei taxi (ogni taxi sarebbe costato diecimila euro)
per avviare un’attività lavorativa. Aveva solo 18 anni.
Ecco
la necessità che questi ragazzi vengano fermati, facciano
esperienza di contenimento, possano fare i conti con altri adulti e
con la Legge; è necessario sperimentare il limite esterno per poter
comprendere l’esistenza di un limite interno che non può essere
oltrepassato, ma che, se accettato, garantisce il legame sociale e
la libertà».
E
gli stranieri nati in Italia?
«Sono
ragazzi con genitori che spesso presentano grandi difficoltà di
integrazione sociale; in molti casi i genitori sono separati, o è
presente solo un genitore sul territorio italiano. In genere, sono
impegnati ad accumulare redditi».
Da
dove provengono queste famiglie?
«Per
lo più dal Nord Africa, dai Paesi dell’Est e anche dall’America
Latina».
All'Ipm
ci sono anche italiani...
«Sono
ragazzi portatori di un forte disagio psicologico oppure psichiatrico
e che provengono da famiglie multi-problematiche, segnate da
separazioni, violenze, perdite e traumi, già in carico ai servizi
territoriali.
A
Treviso solitamente incontro ragazzi italiani con alle spalle
famiglie disgregate; a Milano, invece, avendo lavorato nell’Ufficio
di Servizio sociale per i minorenni (Ussm), dove prevalentemente si
seguono i ragazzi con procedimenti penali con misure meno afflittive
del carcere (le prescrizioni, la permanenza a casa, collocamento in
comunità, ndr)
o la messa alla prova2,
ho potuto verificare che attualmente non solo i ragazzi del ceto
medio-basso si imbattono nel circuito penale, ma anche quelli del
ceto medio-alto, i ragazzi che frequentano i licei, appartenenti alle
cosiddette “famiglie normali”. L’adolescenza è un’età
delicata e di passaggio evolutivo».
Possiamo
parlare dei reati che commettono questi adolescenti?
«Solitamente
la gravità del reato e l’assenza o la non idoneità dell’ambiente
familiare, sono due criteri che influiscono sulla decisione del
magistrato per il loro ingresso in Ipm. Pertanto incontro adolescenti
in grave difficoltà senza riferimenti parentali sul territorio
italiano oppure provenienti da contesti familiari problematici; l’età
varia dai sedici anni ai venti, e l’età media si aggira attorno ai
diciannove anni. I reati prevalenti sono legati allo spaccio di
stupefacenti oppure quelli contro il patrimonio, come furti e
rapine».
E
reati contro la persona?
«Purtroppo
anche questi: ci sono ragazzi in Ipm che hanno commesso violenze
sessuali o anche un omicidio».
Cosa
può spingere un minore a commettere una violenza sessuale?
«Nella
mia esperienza
ho
potuto constatare che solitamente i reati di violenza sessuale
commessi dagli adolescenti avvengono in gruppo.
La
letteratura è concorde nel ritenere che il sesso per gli adolescenti
non è tanto importante in se stesso, ma quanto piuttosto come misura
dei rapporti tra coetanei. Il processo di costruzione dell’identità
sessuale è spesso accompagnato da dubbi angoscianti sulla propria
adeguatezza in relazione al ruolo sessuale3.
Il gruppo dei coetanei solitamente aiuta ad elaborare competenze
relative all’identità sessuale. In generale in gruppo si fanno
cose che non si farebbero mai da soli, perché il gruppo dà forza al
singolo tanto più se è fragile, ma è anche vero che nel gruppo
devi fare quello che decidono gli altri. Infatti, la soggettività
individuale è molto diversa in gruppo da come si esprime fuori da
esso, tanto che la responsabilità individuale solitamente tende a
sfumare. Per questo motivo è molto difficile comprendere la dinamica
di un reato di gruppo, individuando le responsabilità dei singoli,
a causa del rispecchiamento reciproco nell’azione folle di psicosi
collettiva, che consente di vedere e tollerare negli altri aspetti
meno accettabili di sé.
Inoltre,
nella grande maggioranza dei casi in adolescenza, vittima e abusatori
si conoscono, hanno più o meno la stessa età, condividono la stessa
realtà sociale e familiare. Spesso in queste situazioni i minori
non hanno la percezione soggettiva della propria aggressività e non
si rendono conto della gravità dell’azione.
Sono
reati che mettono in evidenza un deficit del limite interno,
superegoico, nel rispetto della Legge simbolica. In generale sono
sempre segnali di rottura dell’alleanza gene-razionale e del
mancato riconoscimento e sostegno da parte dei padri reali e
simbolici di fronte ai bisogni di valorizzazione e di riconoscimento
della nascente virilità ed identità dei figli».
_____________________________
1
Il nuovo codice di procedura penale minorile (Dpr 448/78) recepisce
tale preoccupazione, e tende a proteggere l’adolescente
dall’impatto con il sistema penale, indicando la custodia
cautelare come misura per reati gravi e per situazioni familiari
fragili o assenti.
2
La messa alla prova è un istituto giuridico molto importante con
forte valenza educativa e riparativa, in cui il giovane può
chiedere al giudice, attraverso il suo avvocato, la sospensione del
processo per un periodo che verrà deciso in sede di udienza. La
condizione per ottenere la messa alla prova è che il giovane
riconosca la propria responsabilità del reato e voglia impegnarsi
in un programma riabilitativo, che sarà monitorato dai Servizi
Sociali, in cui lo stesso possa fare esperienza che le proprie
azioni hanno sempre delle conseguenze. La messa alla prova, oltre ad
essere un’opportunità di rilancio evolutivo, diventa anche una
concreta possibilità, se ha esito positivo, di estinzione del reato
dalla fedina penale.
3
A. Maggiolini, E. Riva, “Adolescenti trasgressivi”, ed.
Franco Angeli 2004, p. 88.
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