Nel XVIII canto dell’Inferno, Dante e Virgilio scendono nella Malebolge, e lo scenario che si apre davanti ai loro occhi potrebbe sembrare lontano secoli da noi, eppure parla con forza al presente. Sul ciglio del primo fossato, due file di dannati corrono senza sosta in direzioni opposte, frustati dai demoni che li spingono come animali da soma. Non sono anonime ombre: sono coloro che hanno trasformato l’amore e la sessualità in merce, i mercanti di corpi e i seduttori senza scrupoli, che hanno usato le persone come strumenti per il proprio piacere o guadagno.
Dante, nel descrivere questa bolgia, non parla solo del suo tempo, ma sembra anticipare il dramma contemporaneo della prostituzione, che in molte società si discute se “regolamentare” o addirittura normalizzare. Ma cosa significa “legalizzare” un mercato che si fonda sul corpo delle donne (e non solo delle donne)? Significa accettare che l’affetto, la fiducia, la dignità possano essere messi in vendita. Significa, come i dannati della prima bolgia, correre in cerchio senza fine, ridotti a oggetti che passano di mano in mano sotto lo sguardo compiaciuto dei veri aguzzini: non più demoni, ma clienti, intermediari, sfruttatori.
Più in basso, Dante mostra i lusingatori immersi nella cloaca. È un’immagine brutale: la menzogna, la parola adulatrice e manipolatrice, ridotta alla sua sostanza più infima, agli escrementi. È difficile non pensare, leggendo questa scena, alle voci di chi oggi minimizza lo sfruttamento, mascherandolo con linguaggi edulcorati: si parla di “libera scelta”, di “lavoro come un altro”, di “autonomia femminile”. Ma quante volte queste parole non sono che lusinghe putride, che occultano catene invisibili fatte di povertà, migrazioni forzate, violenze domestiche, dipendenze, disperazione?
Il Dante pellegrino riconosce in quei volti anime note del suo tempo; noi potremmo riconoscere i volti dei nostri contemporanei: i politici che sostengono la “normalizzazione” del mercato del sesso, i cittadini che girano lo sguardo altrove per non vedere la tratta, gli uomini comuni che alimentano la domanda comprando corpi come fossero oggetti. Ognuno, a suo modo, contribuisce a quel girone di dolore che Dante ha scolpito nei secoli.
La lezione del XVIII canto è dunque viva oggi come allora: quando la persona diventa merce, quando l’affetto si riduce a contratto, quando la parola viene corrotta per giustificare l’ingiustificabile, la società intera sprofonda nella propria cloaca morale. Dante non si limita a condannare i singoli peccatori: mette in guardia contro un sistema, contro una mentalità che trasforma l’umano in oggetto.
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