Qui di seguito propongo l'intervista che il dott. Massimo Valli mi ha rilasciato sul tema dell'essere genitori oggi da un punto di vista cristiano. L'intervista è stata pubblicata nel volume "Voci villorbesi"(ed. YouCanPrint, 2019).
Il senso della genitorialità cristiana
intervista a Massimo Valli
Puntare sulla famiglia per rigenerare la
nostra società dovrebbe essere il punto di partenza per costruire anche le
comunità locali, che, soprattutto in questi ultimi tempi, sono composte da persone
segnate da un profondo individualismo. Con Massimo Valli ho voluto affrontare
alcune questioni molto delicate e che riguardano soprattutto le sue esperienze
maturate in questi anni, per riflettere sul valore della famiglia e sull’essere
genitori cristiani oggi.
Massimo Valli (1966) vive a Villorba dal
2000 con la moglie Caterina e i figli Giacomo e (nel cuore) Giovanni. Laureato
in Lingue e letterature straniere a Venezia, lavora nel settore delle
spedizioni. Da decenni è impegnato nella pastorale familiare e come maestro
della Corale parrocchiale “Santi Fabiano e Sebastiano”; da qualche mese è nel gruppo che coordina
il coro dei ragazzi “Germoglio”.
Massimo, cosa ti ha spinto, nel
mese di maggio 2017, ad incontrare i bambini e ragazzi del catechismo al
cimitero di Villorba?
Ho
risposto principalmente ad un invito, rivoltomi da alcuni catechisti della parrocchia
di Villorba. Vi ho risposto volentieri per queste ragioni. In primo luogo, poter
raccontare loro una storia (la nostra) di dolore e sacrificio sul piano umano,
ma anche di amore e di Fede, espressioni della nostra umanità quando questa si
integra con l’esistenza di Dio: solo la Sua esistenza riesce a dare senso a
gesti d’amore; solo la Sua esistenza dà senso alla Fede, alle sue manifestazioni,
ai suoi contenuti. Si tratta della storia della malattia e della morte del
nostro bambino, Giovanni, poco dopo la sua nascita. In secondo luogo, poter
offrire loro un’occasione di avvicinare l’esperienza della morte così come Gesù
ha indicato a noi, prima: come momento di pienezza della nostra esistenza. Come
genitori abbiamo dovuto: accogliere nostro figlio come dono ricevuto, non come
cosa nostra; abbiamo dovuto lasciarlo andare a ciò a cui era stato chiamato da
Dio, che ce lo aveva donato, anche se non era quello che aspettavamo o volevamo
noi. Così come si fa con qualunque figlio. Abbiamo, pur nel dolore del distacco
(un dolore schiacciante, prolungato nel tempo, ricorrente con intensità in
molti momenti della nostra vita) dovuto comprendere, nella Fede, che lui si
avviava alla meta che ogni genitore vorrebbe per suo figlio: la vita eterna in
Dio. Io domando: se ad un genitore cristiano venisse annunciato che suo figlio
è destinato da Dio alla santità del Paradiso, si metterebbe a discutere con Dio
su come vorrebbe che avvenisse oppure gioirebbe infinitamente di questo dono,
in qualunque modo esso si realizzi? Non rispondo per gli altri: ognuno lo farà
per sé. Infine, abbiamo dovuto chiedere aiuto a comprendere umanamente e nella
Fede come rendere questa esperienza un dono e non un castigo, un incontro con
l’amore e non un momento di annullamento, un ponte verso la vera vita e non un
abisso verso il nulla della morte. L’aiuto ci è stato offerto e ci viene
offerto da Dio attraverso il cuore e la competenza di alcune persone che ci
accompagnano. Ma la Fede deve partire da noi.
Qual è la tua concezione di “famiglia”?
Nella mia esperienza di vita la famiglia
è la comunità formata da un uomo e una donna, uniti in matrimonio, e dalle
persone che, a partire dall’amore reciproco e generativo di questa coppia,
ricevono la vita, sia dal punto di vista biologico che affettivo. Questa è la
concezione che viene dalla mia esperienza. Ritengo fondamentale l’aspetto
generativo (o potenzialmente generativo), perché ricorre sempre più spesso
(eufemismo per dire che pretende ormai di essere dato culturale acquisito e
indiscutibile) l’idea che la famiglia possa essere tale anche senza questo
aspetto. Parlo della “famiglia” omosessuale. Purtroppo, però, senza questo dato
si devono necessariamente introdurre categorie, quali, ad esempio, quella che
il figlio è un diritto, non un dono (e questo concetto è spesso presente anche
nelle famiglie naturali); quindi qualunque mezzo per averlo è lecito (perché il
diritto, una volta acquisito e riconosciuto, è innegabile), anche al di fuori
dei processi naturali; a ciò deve aggiungersi che qualunque strada per
conseguire il proprio diritto è lecita, anche calpestare il diritto dell’altro,
della figlia o del figlio, di avere un padre e una madre; per giustificare
questo sopruso bisogna considerare la genitorialità eterosessuale come mera
categoria culturale o sociologica, negando così non solo un fondamento umano e
sociale di sempre, ma anche, e prima di tutto, la scienza. Ah sì, certo,
qualcuno porta spesso l’esempio limite di qualche gruppo umano – presente o
passato (internet è pieno di “esempi”) – o addirittura di qualche essere
unicellulare che giustificherebbe che la natura non ha come legge la
genitorialità eterosessuale: praticamente ci diamo delle amebe[1] da soli e
questo non ci offende minimamente. Infine, anche metodi come il cosiddetto
“utero in affitto” vengono sdoganati da una certa mentalità in nome del
“diritto” al figlio. Cioè, anziché venire incontro ad una realtà tragica come
quella dell’abbandono da parte di un genitore naturale, si pianifica quella
realtà in nome del “diritto” di qualcuno. E il diritto del figlio al suo
genitore? Ah, naturalmente, se il figlio poi non corrisponde alla mia visione,
cioè al prodotto richiesto, c’è sempre l’ulteriore abbandono, il non
riconoscimento o l’aborto. Tutti diritti sacrosanti!
Qualcuno potrebbe dire che pure il Cristianesimo è
ideologia. A parte il bigottismo ignorante (c'è pure quello) il cristiano vero
ha un fondamento ben preciso alla sua idea di famiglia (si può condividere o
no). L'idea di famiglia di altri, invece, si fonda sul punto di vista
individualistico e autoreferenziale dell’adulto, o comunque su un soggettivismo
esasperato, che chiama diritti solo i propri sommovimenti di pancia senza
curarsi minimamente dell'altro (il bambino, per esempio).
Per il Magistero della Chiesa
cattolica la vita inizia col concepimento e termina con la morte naturale.
Quali sono, in merito, le tue personali considerazioni anche alla luce della
tua esperienza di marito e padre?
Se il figlio è dono e non proprietà o
diritto, lo amerò proprio perché proteggerò sempre e comunque questa vita che
non è mia. La dignità della sua vita e della sua persona non è riconducibile o
limitata a quanto riferibile a me: la “mia” capacità o meno di affrontare la
malattia di un figlio o familiare, la “mia” capacità o meno di rinuncia a
qualcosa di “mio” per accompagnare il familiare nella sua difficoltà, la “mia”
capacità o meno di vederlo magari soffrire, che nasconde spesso la
giustificazione che mi do - e pretendo si accetti - nel voler sopprimere quella
vita. Continuo a riferire tutto a me, mentre l’altro, la figlia, il figlio, il
familiare non contano più nulla di per sé, ma solo in quanto “io” riesco o meno
ad accettare, gestire, controllare, capire. Vite in mano mia, come cose mie.
Naturalmente, per poter sdoganare presso la nostra coscienza questa ormai
irrinunciabile autoreferenzialità si è dovuto introdurre l’istituto della DAT
(Dichiarazione Anticipata di Trattamento), che da istituzione volta a
contrastare l’accanimento terapeutico (cosa che anche una coscienza cristiana è
pronta ad accettare) spesso si presta bene al gioco di chi vuole porre
all’esterno della propria coscienza la decisione di provocare la morte di colui
che è malato, per porre fine alla sua sofferenza, senza porsi il problema se,
chi anche avesse sottoscritto la propria DAT sia ancora consenziente con la
stessa nel momento in cui la si dovesse applicare. Ormai si sente parlare palesemente di “diritto al suicidio”. Come marito e padre questo non è
accettabile. Ricordo un fatto specifico, accaduto quando avevo dodici anni, che
mi ha poi fatto da guida molto più avanti, soprattutto nell’età adulta. Era il
1978 ed era appena morto il nonno paterno. Ricordo che mio padre era appena
tornato dall’ospedale di Vittorio Veneto, dove lo aveva assistito durante la
notte e visto morire. Lo ricordo in pizzo al letto matrimoniale, dal lato
sinistro, dalla sua parte, con i gomiti appoggiati alle ginocchia e le palme
sul viso. Piangeva sommessamente, con qualche singulto. Non lo avevo mai visto
così, nella sua debolezza, fragilità, quasi impotenza. Così mi sembrava. Mi
sono avvicinato e seduto accanto, dalla stessa parte alla sua sinistra. Se n’è
accorto e ha iniziato a dirmi, guardando avanti a sé: “Il nonno era ammalato:
ultimamente, come ricordi, aveva perso la testa, la memoria e non sapeva più fare
nulla, nemmeno tenersi pulito. Mi raccomando. Non abbandonare mai i genitori,
anche quando saranno vecchi, malati, anche se andranno fuori di testa e non
sapranno più arrangiarsi”. Poi da uomo di fede aggiunse: “C’è un passo della
Bibbia che dice: Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia, non
contristarlo durante la sua vita. Anche se perdesse il senno, compatiscilo e
non disprezzarlo, mentre sei nel pieno vigore. Poiché la pietà verso il padre
non sarà dimenticata, ti sarà computata a sconto dei peccati” (Sir 3, 12-14). Ecco: questo per me è
stato il punto di riferimento anche quando vedevo i miei genitori ammalati (la
mamma spegnersi di tumore, il papà per i postumi di un’operazione); questo
vedevo fare (non solo dire) dai miei genitori, quando si prendevano cura dei
nonni, scegliendo di andare ad abitare a casa loro quando non erano più
autonomi e già in demenza avanzata. L’amore verso il figlio non può che volere
il suo bene, non il mio. Se è ammalato, non posso rifiutare la sua malattia:
rifiuterei lui; non posso interrompere la sua vita: lo tradirei, perché a me
chiede amore, non compassione o pietà; chiede pienezza, non sentimenti
soltanto; e non sono io che do pienezza alla sua vita, ma Dio; e solo mettendo
al centro Dio metterò al centro mio figlio e la volontà che Dio ha per lui,
anche attraverso la mia presenza. Se lo uccido, avrò tradito il mio essere
padre o madre.
Molte persone si chiedono che
senso ha far nascere un bambino se poi - in base a quello che dicono i medici -
è destinato a morire nell'arco di poco tempo tra indicibili sofferenze. Quali
sono, in merito, le tue riflessioni?
Per rispondere a questa domanda credo si possa far
riferimento a quanto sopra. Ricordo inoltre perfettamente che, mentre seguiva
con noi la gravidanza del secondo figlio, in situazione fisiologica gravemente
e irrimediabilmente compromessa dalla totale disfunzione di entrambi i reni,
l’ecografista, una delle migliori professioniste dell’ospedale di Treviso, ci
scandiva di volta in volta il tempo che mancava al termine entro il quale la
legge consente l’IVG (Interruzione Volontaria di Gravidanza). Lo faceva per
procedura e dovere professionale. La nostra risposta, per bocca sempre di
Caterina, mia moglie, era che intendevamo proseguire con l’atteg-giamento
conservativo rispetto alla gravidanza. All’ecografista bastava questo, non ci
era richiesto di motivare nulla. E nemmeno lo facevamo noi, ritenendo quell’at-teggiamento
del tutto normale. Allo scadere dei termini di legge previsti per l’IVG, la
dottoressa ci ricorda nuovamente l’alternativa dell’IVG, aggiungendo: “La
possibilità esiste fino ad oggi, ma qualunque sarà la vostra scelta, noi vi
accompagneremo in quella fino alla fine. Se il bambino arrivasse a termine
gravidanza o alla nascita, io non sarò probabilmente presente all’evento: voi
forse non conoscerete nessuno in sala parto, ma tutti conosceranno voi e
Giovanni”. E così è stato. Una regia sapiente e perfetta da parte sua. Il
travaglio è avvenuto di notte e il parto alle 8:55 del sabato mattina, 20
aprile 2013. Noi non conoscevamo nessuno, ma tutti i presenti, dall’ostetrico
alle assistenti, dal neonatologo a tutto lo staff sapevano chi fossimo, perché
e come fossimo arrivati là. Il clima di introvabile collaborazione
professionale e profonda solidarietà umana che si è creato in quella sala parto
ha reso manifesta la presenza di Dio nella nascita, nel passaggio alla morte,
nel dolore, nei sorrisi, nelle lacrime, nei gesti discreti di cura
compassionevole verso Giovanni, nel gesto di Caterina di tenere in braccio per
qualche breve minuto Giovanni, nella domanda se volessimo battezzare Giovanni.
Come mi capita di dire spesso, in quella sala parto si è riproposta la Genesi
biblica: la madre che dà la vita (hawwah, la madre che dà la vita, Gen 3, 20) e
il padre che dà il nome. Infatti ci fu proposta la possibilità di battezzare
Giovanni, se avessimo voluto. Risposi che potevo farlo io. E lo battezzai.
Nella mia miseria umana, nella mia impotenza, nel mio dolore, nel mio conoscere
così imperfetto, nel mio non capire fino in fondo tutto questo Dio mi ha
chiamato a battezzare mio figlio, a renderlo suo figlio, per sempre. Abbiamo
ricevuto più da Dio grazie a Giovanni ed abbiamo potuto dare a lui di più
nell’accettare e accompagnare il suo dolore e la sua malattia, che nel decidere
di sopprimere prima quella vita, di farcene padroni, rinunciando così ad amarla
per quello che era, come Dio stesso fa con tutti noi. Io non ho potuto
guarirlo, fermare i suoi passi di bambino verso la morte e nemmeno farlo
dormire a lungo tra le braccia della sua mamma. Ho avuto da Dio il dono di
accompagnare mio figlio in quella volontà insondabile. Dietro a tutto questo
posso dire che c’è solo Amore. Ecco il senso di accettare e rispettare quella
vita. Non so dire se sarebbe stato meglio avere Giovanni sano e vivace insieme
a noi. Questo era il desiderio di tutti noi. Ma ciò che ci è stato riservato è
stato qualcosa di grande, come l’Amore che misteriosamente ha legato tutti
questi momenti e che abbiamo tutti respirato e Giovanni con noi.
Tuo figlio Giovanni ha vissuto per circa venti minuti: cosa ha lasciato a
te e ai tuoi cari in questo brevissimo arco di tempo?
La
paternità, la maternità, la fratellanza, la famiglia, il senso della
genitorialità cristiana, che sta nell’accompagnare il figlio alla chiamata per
la santità, non a quello che piace a noi, anche se “buono”. Ha lasciato
un’esperienza d’amore unica. Di amore ne ha chiesto tanto: perché amare lui era
indiscutibile, ma amare anche la sua malattia e la prospettiva della morte non
era mica del tutto normale, né facile. Ho capito di più, a poco a poco, il
mistero del Padre che vede il Figlio morire e, pur onnipotente, lo lascia
morire, perché quello sia fonte della salvezza per tutti noi. Quello è Gesù, ma
per Giovanni che senso ha avuto quella sofferenza, quella vita spezzata?
Ricordo che cercavo silenziosamente, senza parole, nemmeno interiori, la
risposta a questa domanda. Giovanni morì il 20 aprile e il funerale si celebrò
il 26. Il 22, un lunedì, andai all’ufficio dello stato civile del Comune di
Treviso per la denuncia. Conclusa la pratica passai alla chiesa di San
Francesco, a pochi passi da lì. Desideravo parlarne con Dio, ma volevo prima
confessarmi, perché volevo affidare prima a Lui la mia povertà, la mia miseria
umana, cancellare la mia lontananza da Lui, che, invece, mi era sempre vicino.
Volevo ringraziarLo per il dono ricevuto, mio figlio, anche attraverso il
dolore. Preparandomi alla riconciliazione, mi inginocchiai su un banco,
nell’area dei confessionali, presso l’ingresso ovest della chiesa. Dalla mia
posizione, alzando gli occhi, potevo vedere il crocifisso, racchiuso
nell’angolo di prospettiva compreso tra due colonne in primo piano: questo mi
portava a vedere solo il crocifisso, senza essere distratto da ciò che gli sta
attorno. Più lo guardavo e più vedevo in quella storia la storia di Giovanni.
Anch’io avevo dovuto osservare la sua via crucis senza poter intervenire, senza
poterla interrompere; anche Giovanni era rimasto inchiodato alla sua malattia e
nessuno lo aveva potuto far scendere da quella croce. Alla fine era morto tra
le braccia di sua madre e anche del fratello, in una pietà fatta di dolore,
domande, ricordi, e divenuta, per questo, preghiera. Ho ammirato mia moglie:
come le dico spesso, ha preparato la strada alla santità del figlio e anche
alla sua.
Come
uomo, nel senso di maschio, non le farei direttamente dei discorsi: le direi di
parlare con mia moglie. Di passare almeno una settimana con lei. Di parlare del
bambino, del dolore, della malattia, delle ansie, delle rinunce, della gioia
del primo test, dello schiaffo della prima diagnosi infausta, dei sorrisi misti
a lacrime quando lo si sente muoversi dentro, delle risposte date al fratello
che chiede di sapere. Di che cosa leghi tutte queste cose e le impreziosisca.
Come uomo nel senso di “persona”, nel pieno rispetto della coscienza di quella
donna, della quale rende conto solo a Dio (e della quale anche Dio ha rispetto
nel suo manifestarsi), dopo aver consigliato questa o altra possibilità di
approfondire e di fronte alla sua ferma decisione, non potrò che ribadire con
dolore che si tratta di un omicidio[2].
A negare ciò sarei complice di quell’omicidio. Un omicidio non è meno tale in
base alle condizioni di chi lo compie o lo commissiona. Potrà essere valutato
in modi differenti, ma mai chiamarsi addirittura “diritto”. Potrò cercare di
comprendere il contesto in cui è avvenuto l’omicidio, cercare le attenuanti,
persino stare accanto all’esecutore, condividere i suoi sensi di colpa, il suo
dolore, parlare e piangere con lui. Ma non potrò mai non dire che per colpa di
qualcos’altro si è ucciso chi non ha colpa; per difendermi da qualcos’altro ho
ucciso il più indifeso. A me comunque non spetta il giudizio, ma la preghiera e
la carità fraterna[3],
perché spesso quella donna “deve incontrarsi con il figlio” [4].
Oggi, un po’ tutti, facciamo fatica a
“pensare” alla morte, soprattutto cerchiamo di evitare questo argomento con i
nostri figli. Quali sono in merito le tue riflessioni?
Meno
male che facciamo fatica a “pensare” alla morte. Anche Gesù faceva fatica e ha
dovuto “combattere” (agonia = lotta) per richiamare a se stesso il senso di
quell’ora e della sua morte (Lc 22, 44 – “Entrato nella lotta, pregava più
intensamente”). Ma non ha cercato di evitare l’argomento, questo no. Però ne ha
parlato da Dio, qual era. Così ha parlato della sua morte, del suo significato,
e anche della morte dei suoi discepoli, proprio per il fatto di essere suoi
discepoli. Ha parlato del senso della morte di un amico: “Lazzaro, il nostro
amico, si è addormentato; ma io vado a svegliarlo” (Gv 11, 11); “Lazzaro è
morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate;
ma andiamo da lui” (Gv 11, 14); “Tuo fratello risorgerà […]. Io sono la
resurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e
crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?” (Gv 11, 23. 25-26). Ecco la
domanda che mi pongo sempre davanti alla morte: Tu, Massimo, credi questo (che
Gesù ti dice e testimonia con la sua vita)?
Qual è - e
perché - la pagina del Vangelo che più ti piace e che ti fa riflettere?
Si tratta dell’episodio dell’adultera (Gv 8, 1-11).
Mi piace perché è quella che più di ogni altra rappresenta la misura del mio
bisogno di Dio, del Suo Amore, del Suo perdono. Un perdono che vince il mio
orgoglio, la mia vergogna davanti a Lui e alle sorelle e fratelli che vivono
accanto a me. Senza l’Amore di Dio sarei morto dentro. Quanti nella mia vita
sono i tradimenti, le mancanze d’amore, i gesti che mi portano lontano da Lui e
dal prossimo! Se guardo alla mia vita di tutti i giorni, posso forse dire che è
incontaminata dall’orgoglio, dal compiacimento di me, dall’impulso a voler
controllare gli eventi e le persone in base alle mie esigenze? E tutto questo
non significa forse “fare l’amore con queste cose”? E nelle fasi più acute di
questo orgoglio, di questo compiacimento, non sono forse immerso nella
pornografia di quel castello di ragioni che sostengono quegli atteggiamenti?
Quando voglio assolu-tamente aver ragione, quando venero le mie capacità,
quando amo le mie intuizioni e divento sordo alle ragioni, intuizioni, bisogni
del prossimo (che sono quelli di Dio, Mt 25, 40. 45), allora faccio l’amore con
altro e con altri! Allora rivedo me stesso con ribrezzo e penso che nemmeno Dio
vorrà più ascoltarmi o stare con me. E invece egli mi dà il coraggio di alzare
gli occhi di nuovo, mi prende per mano. Chi mi fa notare quei miei peccati ha
ragione, inutile negarlo, e mi mette “al centro” (Gv, 8, 9) per evidenziare la
mia mancanza di coerenza. Dio mi ridà speranza e non so se benedire quel
peccato per il fatto di farmi sperimentare ancora di più la grandezza
dell’Amore che ricevo. E mi viene in mente quel brano del preconio pasquale del
Sabato Santo, che recita: “Beata la colpa, che meritò un tale e così grande
Redentore”. Ogni volta che la sento alla Veglia Pasquale, il cuore si commuove,
sorride, gioisce, ringrazia.
Quali riflessioni - partendo dalla tua esperienza di marito e padre - ti
senti di proporre leggendo uno dei brani del Vangelo dedicati a Giovanni il
Battista, il quale, tra le tante cose che poteva rimproverare a Erode scelse
quella dell’adulterio tra Erode ed Erodiade? Da tener presente che Erode per
esercitare il potere e vivere nel lusso aveva certamente fatto assassinare
persone e imposto tasse inique…
Credo che Giovanni il Battista
scegliesse quell’argomento, perché rientrava nel suo intento di richiamare alla
conversione. Giovanni sapeva bene che la relazione tra Erode ed Erodiade era
non solo adultera, perché quest’ultima era sposa (divorziata?) di Erode
Filippo, ma, essendo lei stessa figlia di un figlio di Erode il Grande e quindi
di un fratello di Erode Filippo, fratellastro di Erode Antipa, era addirittura
una relazione incestuosa (praticamente tra zio e nipote). Giovanni aveva a
disposizione, da integro e buon ebreo, la Torah come riferimento dottrinale e
su questa base dava a sua volta ad Erode occasione di diventare migliore,
secondo la volontà di Dio. Il riferimento è la sesta delle Dieci Parole. Può
correttamente porsi come “colui che prepara la via all’incontro con Dio”, non
come un antagonista di Erode e del suo potere. Sarebbe stato fuori luogo e
arrogante. Giovanni non ha nessun potere e lo ribadisce con forza.
Oggettivamente il peccato più grande di Erode non era il cattivo esercizio del
suo potere: l’esercizio del potere è una chiamata, e da un cattivo esercizio si
può sempre cambiare rotta senza rinunciare al potere in sé; una relazione
adultera e, per di più, incestuosa, invece, non si può “migliorare”: bisogna
interromperla senza condizione alcuna. E la sua continuazione corrompe l’anima
da dentro in modo profondo, fino ad annientare l’anima stessa e ad allontanarla
da Dio in modo definitivo. Va interrotta e, per questo, bisogna rinnegare se
stessi e “vestire il sacco”, umiliarsi. Dalla sua posizione Giovanni dice ad
Erode Antipa: “Guarda: questa è la Torah di YHWH ‘Elohim. Di essa devi nutrire
tutto il tuo cuore, tutta la tua esistenza, tutte le tue energie, se vuoi
incontrare Dio”. Lo stesso fa con gli altri che vengono a farsi battezzare da
lui. Persino ai soldati non dice di smettere di fare il soldato, ma dice: “Non
maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre
paghe” (Lc 3, 14).
La questione del potere è affrontata, invece, da Gesù: naturalmente Egli parla
di un Regno che “non è di questo mondo”, di un Regno che è quello della Vita in
Dio, della Verità di Dio, della sua eternità, verso la quale egli è via
mediante la morte e la resurrezione. Gesù, infatti, sceglie quest’altro
argomento con Erode: “Andate a dire a quella volpe: Ecco, io scaccio i demòni e
compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno avrò finito” (Lc 13, 32). Sappiamo com’è andata a finire, con
Erode, sia per Giovanni il Battista che per Gesù. Non risulta che Erode Antipa
sia “sceso dal suo trono di iniquità”. Come marito e padre sento di dover
mettere sempre davanti a Dio la relazione con mia moglie e con i miei figli,
sia quello in terra che quello in cielo. Tutti loro sono il dono che Dio mi ha
fatto perché io incontrassi e incontri giorno dopo giorno l’Amore. Mi capita
spesso di dire che ho capito molto di più di Dio da quando sono marito e padre.
Ho capito che cosa sia Lui per me, che cosa provi per me quando ci amiamo e
quando io mi allontano o rifiuto questo Amore. Lo dico con il cuore. Per questo
sento di dover mettere davanti a Lui anche ogni difetto (lo sto pensando nel
senso etimologico) piccolo o grande e ogni macchia che rendono queste relazioni
meno Amore, che fanno morire questo Amore e, con Esso, anche me. Questa è
l’esperienza che faccio in questi anni nel Sacramento della Riconciliazione
Gesù aveva definito Giovanni il Battista
come l'uomo più grande nato da donna. In effetti, a Giovanni è stata riservata
la possibilità di vivere un’esperienza unica: in occasione del battesimo di
Gesù si è trovato “davanti” alla Santa Trinità con la voce di Dio che scendeva
dall’alto, la presenza dello Spirito Santo sotto forma di una colomba e lo
stesso Cristo. Davanti a questa immagine, quale riflessione Ti senti di
proporre?
Posso
dire che avrei gioco facile ad agganciare tutta una serie di riflessioni in
merito, a partire dal fatto che uno dei miei figli si chiama Giovanni. Ma mi
viene spontanea ed immediata su tutte questa riflessione. Giovanni il Battista
ha potuto contemplare quanto Dio sia famiglia. Si è trovato a realizzare quello
che era già progettato prima di lui (“dopo di me verrà uno che è prima di me,
Gv 1, 30), frutto della dinamica familiare d’Amore messa in atto da Dio
Trinità. Una forza tale alla quale non ha potuto sottrarsi. È la forza
dell’Amore di una famiglia, che nel realizzare nell’Amore il bene di ciascuno
fa sì che questo Amore si riversi intorno con una forza che nemmeno la morte
può fermare. Il Padre presenta il Figlio (“Questi è il Figlio mio, l’amato”, Mt
3, 17) e l’Amore che ha per Lui (Spirito Santo). E questo Figlio si inserisce
nel mondo, non si fa lodare ed esaltare, si sporca le mani con gli uomini, con
il loro lavoro, con le loro fatiche, con i loro peccati. Si fa battezzare come
un peccatore, per fare la strada insieme a noi, non per darci indicazioni
dall’alto o da lontano. “Battesimo” significa “immersione”: il Padre immerge il
Figlio nella nostra condizione, perché possiamo arrivare a Lui. Come Padre non
posso che imparare che il progetto affidato a mio figlio non è un mio living
plan su di lui, non è cosa finalizzata alla mia soddisfazione, ma al bene di
tutti: proteggerò questo figlio, ma sarà il figlio di tutti, non mio; la sua
vita avrà tanto valore quanto l’amore che ho saputo dargli diventa il tesoro
che saprà donare agli altri, come l’Amore del Padre ha avuto il suo frutto
nell’offerta che il Figlio ha fatto di sé per tutti noi. Come marito, come ho
già espresso più sopra, posso dire che avrò risposto a questa chiamata se potrò
dire ogni giorno (nei momenti speciali, ma anche nella ferialità, nei gesti più
semplici, nel lavoro e nel riposo, nella carezza, nella stanchezza di certe
giornate, nella gioia della riuscita di alcuni progetti), e alla fine della mia
vita, di aver reso visibile e fruttuoso nell’amore per Caterina e da Caterina
quello che Dio ha per me, per i miei figli e per ogni uomo
Un’ultima domanda per concludere quest’intervista
riguarda la tua vita al Dominicale: cosa ti piace di più e perché quali motivi
inviteresti altre persone a venire ad abitare qui?
Di questa contrada sarebbe facile evidenziare molti
difetti e contraddizioni. Più difficile è coglierne le ricchezze e, come la
domanda richiede, le attrattive. Dal punto di vista urbanistico, specie per il
tratto del quartiere dove abito io, posso dire che si tratta di area protetta,
non di passaggio. Le direttrici da e per la città non passano direttamente da
questa parte e consentono un’abitabilità rispettosa delle esigenze di una
famiglia, di bambini che cercano un’area verde in cui giocare, o anche uno
spazio sotto casa in cui incontrarsi, senza essere bandierina di slalom per
veicoli; la presenza del parco e della piazza interna al quartiere favorisce
esperienze di incontro e conoscenza, relazione, solidarietà; il contesto è
ideale per monitorare situazioni di disagio e difficoltà; per chi sa essere
attento (con il cuore oltre che con l’occhio) ci sono opportunità per
l’incontro con situazioni di difficoltà, solitudine, abbandono. Qui è nato
qualche anno fa un gruppo di famiglie che condividono e mutuano esperienze,
tempo ed energie, insieme alla Fede. Questo gruppo è stato per noi,
nell’esperienza con Giovanni, di grande sostegno e vicinanza. Non li
dimentichiamo mai. Desideriamo
ringraziare, in particolare, le mamme per essere state presenti e vicine nel
dialogo e nella condivisione della maternità, e i padri per aver saputo
incoraggiare e consolare.
Da soli non ce l’avremo fatta;
non si porta la croce da soli: così è stato per Gesù e così è stato anche per
noi. Che il Signore li benedica e li ricolmi di tutti i suoi beni.
[1] L’esempio dell’ameba è
inserito in riferimento al carattere asessuato di questa specie unicellulare e
della sua riproduzione.
[3] Vedi “Catechismo della Chiesa Cattolica”, 2272: “La Chiesa non intende in tal modo restringere il campo della
misericordia. Essa mette in evidenza la gravità del crimine commesso, il danno
irreparabile causato all’innocente ucciso, ai suoi genitori e a tutta la
società”.
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